24-12-20
Il mondo è pieno e sorprendente, nel bene e nel male.
L'altra sera leggevo che il temibile icesberg A68 (4.000+kmq) che minacciava la popolatissima (di animali) Georgia del Sud, si è fratturato e adesso dirige verso Sud, pericolo scampato. Nel 2004 un altro icesberg causò molti danni alla popolazione di animali dell'isola, più che altro perché fece morire di fame tanti cuccioli e pulcini mentre i genitori cercavano di trovare il cibo per loro in mezzo a quelle decine di km di ghiaccio, che se non altro, nell'arco di 3-4 mesi si spaccarono e dispersero più volte e solo una parte ridotta rimase entro l'estate, per distruggersi totalmente tra il 2004 e il 2005. Però non fu bello e stavolta si pensava che sarebbe durata la permanenza dell'icesberg, fino a 10 anni nel futuro. Ma per fortuna no, non è stato così. Adesso si dirige a Sud ed è pieno di frammenti e spaccature. Bye bye A68.
DUNQUE, torniamo a noi.
Avevo già definito molto negativamente l'esime super-professore Palù, ma adesso vengo a sapere che è diventato niente di meno che il N.1 di AIFA. Carica di nomina POLITICA, sia ben chiaro.
E allora questo spiega bene il perché di come Palù, che inizialmente parlava apertamente di pandemia, abbia cambiato rapidamente idea.
PROFEZIA FASSINIANA N.1.
Coronavirus, 10 esperti: «Emergenza finita». Ma è scontro nella comunità scientifica - Corriere.it
Coronavirus, 10 esperti: «Emergenza finita». Ma è scontro nella comunità scientificaZangrillo, Clementi, Remuzzi e altri sette scienziati firmano un documento sostenendo che i dati ospedalieri consentano di affermare che il coronavirus è, oggi, meno aggressivo. Altri colleghi spingono per il mantenimento della prudenza: «Non è finita»
24 giugno 2020 (modifica il 24 giugno 2020 | 16:20)
di Margherita De Bac
Coronavirus meno aggressivo? Epidemia in dismissione? Sì, sarebbe questa l'attuale condizione del Sars-CoV-2 secondo una «cordata» di esperti di varia estrazione medica che adesso hanno ribadito le loro teorie in un documento unico, dopo essersi espressi individualmente.
Chi si ammala oggi di Covid-19 avrebbe un basso rischio di aggravarsi perché il virus ha una carica virale più debole e anche meno contagiosa. Firmato Alberto Zangrillo, Matteo Bassetti, Arnaldo Caruso, Massimo Clementi, Luciano Gattinoni, Donato Greco, Lucà Lorini, Giorgio Palù, Giuseppe Remuzzi e Roberto Rigoldi il cui manifesto è stato ripreso dal quotidiano Il Giornale. Un partito scientifico trasversale formato da virologi, anestesisti ed epidemiologi, idealmente schierato contro la comunità dei colleghi più prudenti, convinti che il virus abbia purtroppo ancora molte cose da dire, che non sia affatto cambiato né si sia indebolito e che l’apparente, ridotta bellicosità sia frutto delle misure di distanziamento adottate durante il lockdown.
Silvio Brusaferro, Franco Locatelli, Giuseppe Ippolito e Giovanni Rezza, del comitato tecnico scientifico di supporto al governo nelle decisioni concernenti le azione da portare avanti, non perdono occasione per lanciare un messaggio chiaro. Il virus c'è ancora e non è meno aggressivo. Però circola meno ed è pronto a tirar fuori le unghie. Basta vedere quanto sta accadendo in Germania, nell’impianto di macellazione, e in Portogallo dove è stato necessario ripristinare larghe zone chiuse nella provincia di Lisbona. O, andando più lontano, in Brasile e India dove l’epidemia è nella sua piena espansione. In Italia i focolai che di tanto in tanto compaiono sono un monito.
IL DIBATTITO TRA ESPERTI
Dove porteranno queste contrapposizioni sulla natura del virus? Sicuramente stanno intanto portando confusione nell’opinione pubblica, che sembra aver perso di vista i messaggi chiave, ispirati alla prudenza e al mantenimento delle regole.
Crisanti: «Coronavirus più debole? Solo chiacchiere, non è scienza» - Corriere.it
Crisanti: «Coronavirus più debole? Solo chiacchiere, non è scienza»
Il professore del «modello Veneto» contro lo studio effettuato in Veneto su 6mila tamponi che dimostrerebbe che la carica virale di Sars-CoV-2 si è indebolita: «Chi dice che il virus non è contagioso?»
di Alessandro Macciò
21 giugno 2020
PADOVA — Una stroncatura senza mezzi termini. Lo studio sui risultati dei tamponi realizzato per conto della Regione da Roberto Rigoli, direttore dell’ unità complessa di Microbiologia a Treviso e coordinatore delle microbiologie del Veneto, sbatte contro il pollice verso di Andrea Crisanti, il direttore del laboratorio di Padova che prima ha lanciato il modello dei tamponi a tappeto con lo studio sulla popolazione di Vo’ e poi è entrato in rotta di collisione con Luca Zaia per il risalto dato dal governatore a Francesca Russo, direttore del dipartimento di Prevenzione, indicata come l’autrice del piano regionale che ha permesso di arginare la pandemia.
L’indagine presentata ieri da Rigoli (e anticipata dal Corriere del Veneto) è stata condotta proprio sotto la supervisione di Russo, e in sostanza afferma che il coronavirus si sta «spegnendo». Una tesi in contrasto con quanto sostenuto più volte da Crisanti, secondo cui dietro ai dati apparentemente rassicuranti delle ultime settimane «c’è qualcosa che non sta funzionando», e in particolare il fatto che la curva dei contagi resta bassa ma costante.
Crisanti, il virologo «ribelle» che ha puntato tutto sui tamponi «a tappeto», in controtendenza rispetto alle direttive (dell’epoca) dell’Oms e del governo, ieri ha confermato che lavorerà per la procura di Bergamo come consulente nell’ inchiesta per epidemia colposa sulla mancata zona rossa di Alzano e Nembro («È la prima volta che vengo chiamato a svolgere un ruolo così delicato, sono molto contento e ce la metterò tutta per aiutare i pm ad arrivare alla verità»), ma ha anche etichettato come «chiacchiere» quelle che invece Rigoli ha presentato come «scoperte incredibili».
Professor Crisanti, il lavoro del suo collega Rigoli mette in evidenza due aspetti: il primo è che quasi tutti i positivi sono asintomatici o hanno sintomi lievi, il secondo è che molti di loro non sono contagiosi perché il loro organismo contiene solo frammenti di virus ormai inerti. Cosa ne pensa?
«Chi parla dell’ infettività di questo virus non sa quello che dice, perché l’infettività si misura sperimentalmente, e sull’uomo non è possibile fare nessun esperimento e non esiste un modello animale. Senza numeri e senza misura non è scienza, sono solo chiacchiere. Siccome non è possibile fare sperimentazioni di infettività sull’uomo, nessuno sa qual è la dose infettiva di questo virus e non c’è nulla da commentare: non si può commentare con un argomento scientifico una cosa che non è Scienza».
Secondo lei si tratta di uno studio privo di valore?
«Io lo studio non l’ho visto, mi baso sul fatto che non esistono modelli animali. Sarebbe interessante capire come hanno fatto queste misurazioni, ma bisogna chiederlo a loro. Qual è la dose infettiva? Lo sa qualcuno? Non lo sa nessuno. Sarebbe interessante sapere sulla base di quali misure sono state fatte queste affermazioni. Se la carica virale è bassa, chi lo dice che il virus non è infettivo? Per alcune malattie basta un batterio per provocare l’ infezione, ma lo sappiamo perché c’ è un modello animale».
Questo studio sembra in linea con la ricerca dell’ istituto Mario Negri, stando alla quale i nuovi casi positivi hanno una carica virale molto bassa. Anche Alberto Zangrillo, direttore della terapia intensiva dell’ ospedale San Raffaele di Milano, aveva detto che «clinicamente il virus non esiste più». La preoccupa questa tendenza a ridimensionare il fenomeno?
«Per me queste letture vengono fatte senza sapere il perché di quello che sta succedendo. È indubbio che i casi attuali non sono gravi, non lo discuto, ma il 22 febbraio a Vo’ c’ erano 150 persone positive e in ospedale ce ne sono andate tre, mentre gli altri avevano un’infezione simile a quella che sta circolando adesso. Allora c’è da chiedersi: che cosa succedeva prima che scoppiasse tutto questo? E noi che cosa stiamo vedendo?».
Quindi l’entità della carica virale è poco indicativa?
«All’epoca la malattia non aveva dato nessuna notizia di sé, questo significa che le prime infezioni erano a carica bassa e molto simili a quelle che vediamo adesso. Lo scenario non è cambiato, è cambiato il nostro punto di vista su quello che osserviamo».
Coronavirus in Veneto, lo studio: «Il virus? Ora è debole e poco contagioso»
Rigoli: «Oggi risulta meno aggressivo»
di Andrea Priante
TREVISO«Stiamo scoprendo delle cose incredibili». Pare illuminarsi, Roberto Rigoli, parlando dei «suoi» virus. «Mai un’infezione respiratoria era stata studiata in modo tanto approfondito, con tamponi ripetuti anche mesi dopo la guarigione» spiega il direttore dell’unità operativa complessa di Virologia di Treviso. È l’uomo scelto dal governatore Luca Zaia per coordinare le attività delle microbiologie del Veneto. E all’indomani del superamento della soglia simbolica dei duemila morti, proprio la Regione oggi presenterà l’ultima di queste «cose incredibili» emerse grazie al lavoro dei nostri laboratori. Una scoperta che potrebbe dare voce a chi chiede un definitivo allentamento delle misure anti-Covid.
Roberto Rigoli20 giugno 2020 (modifica il 20 giugno 2020 | 12:48)
Andiamo con ordine. Chi ci ha lavorato? «È un progetto condiviso col direttore del servizio Prevenzione della Regione, Francesca Russo, e voluto fortemente da Zaia. Col sottoscritto ci hanno lavorato i colleghi Giuliana Lo Cascio, Mario Rassu, e Claudio Scarparo».
Di cosa si tratta? «È uno studio preliminare fatto su 60mila tamponi che finora ha coinvolto le Usl di Vicenza, Verona, Treviso e Mestre, e presto si allargherà a tutto il Veneto. Siamo partiti 15 giorni fa, andando a vedere i risultati dei test. I positivi al Covid ad esempio erano 210».
E cosa avete notato?«Innanzitutto, che la quasi totalità dei positivi è asintomatica o ha sintomi lievi, paragonabili a una normale influenza. Quindi oggi il virus è poco aggressivo e, avendo una carica molto bassa, risulta meno contagioso. Di conseguenza, anche se venisse trasmesso, risulterebbe depotenziato rispetto a quello che, ad esempio, dovevamo affrontare un mese fa. Infine, osserviamo che una buona parte di chi risulta positivo al tampone, in realtà non è infettante - cioè non è in grado di contagiare altre persone - perché dentro di sé ha un virus “inerte” poiché incompleto».
Partiamo dalla prima scoperta. Perché oggi il Covid è meno aggressivo? «Ancora non sappiamo il motivo. Per ora ci limitiamo a rilevare il fatto che nessuno dei positivi ha avuto bisogno di cure ospedaliere».
Il caldo estivo ha influito? «Mah, non è sufficiente a spiegare questa perdita di virulenza. In fondo, in Brasile il Covid ne sta ancora combinando di tutti i colori».
Secondo fattore: positivi che, in realtà, non lo sono... «Qui occorre una premessa, magari un po’ noiosa ma necessaria. I batteri si moltiplicano sdoppiandosi: da uno a due, da due a quattro, e così via. Il virus si comporta diversamente: entra nella cellula e questa comincia a produrre “pezzi” di microorganismo. Così la cellula infettata costruisce il capside, la proteina S, la corona… Parti che poi vengono assemblate consentendo al virus, finalmente completo, di infestare altre parti dell’organismo. A volte però capita che l’agente patogeno non si replichi più, e così i “pezzi” non assemblati restano nelle cellule, nel caso del Covid 19 in quelle bronchiali. Ma questi frammenti tendono a risalire, ad esempio con un colpo di tosse. Ecco spiegato perché i tamponi, su alcuni malati, sono passati da positivi a negativi per poi tornare positivi: quelle persone sono effettivamente guarite ma nei campioni prelevati in gola o nel naso ci sono alcuni di questi frammenti di virus che, seppur inerti, vengono rilevati attraverso dei cicli di amplificazione molto alti».
Quindi risultano positivi anche coloro che, in realtà, sono guariti e mantengono nei bronchi questi frammenti del virus. Sicuri che non siano pericolosi? «Il virus è morto. Non hanno alcun effetto e non possono contagiare altre persone».
Alla luce di tutto questo, in autunno cosa accadrà? «Non gioco a fare l’indovino, mi limito a osservare i dati di fatto. E sulla base di quanto stiamo vedendo, a settembre potranno esserci tre scenari possibili. Il primo è che il virus torni con la virulenza di prima, ma a questo punto lo ritengo assai poco probabile. La seconda possibilità è che si ripresenti con una forza pari a quella di una normale influenza, con patologie in forma lieve: più o meno, la situazione attuale. Infine, il Covid 19 potrebbe scomparire definitivamente, come capitò alla Sars tra il 2003 e il 2004».
Sarebbe la fine di un incubo. «È presto per cantare vittoria. Ma se si confermeranno i primi risultati ottenuti dallo studio, allora presto si potrebbero allentare le restrizioni previste dalle linee guida in merito all’uso dei dispositivi e alla distanza sociale. E allora si potrà tornare, almeno in parte, alla vita di prima».
Coronavirus, Remuzzi: «I nuovi positivi non sono contagiosi, stop alla paura»
Il direttore dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri e lo studio sui tamponi:
«La carica virale è diventata molto bassa»
di Marco Imarisio
19 giugno 2020
Professor Remuzzi, richiudere la Lombardia?
«Ma per carità. Piuttosto, l’Istituto superiore della Sanità e il governo devono rendersi conto di quanto e come è cambiata la situazione da quel 20 febbraio ormai lontano. E devono comunicare di conseguenza. Altrimenti, si contribuisce, magari in modo involontario, a diffondere paura ingiustificata».
Anche con una media giornaliera del 70-80 per cento dei nuovi contagi concentrati in una sola regione?
«Bisogna spiegare cosa sta succedendo alla gente, che giustamente si spaventa quando sente quei dati. Qui all’Istituto Mario Negri stiamo per pubblicare uno studio, che contiene alcune informazioni utili per capire, almeno così mi auguro».
Di cosa si tratta?
«Una breve premessa, spero non troppo noiosa, sul funzionamento dei tamponi. Per la ricerca del virus si usa la tecnica della reazione a catena della polimerasi (Pcr), in grado di amplificare alcuni specifici frammenti di Dna in un campione biologico».
Fino a qui tutto bene.
«Per il Covid-19, funziona così. Il genoma del coronavirus presente sui tamponi, ovvero l’Rna, viene trascritto a Dna e amplificato mediante tecnica Pcr, che aumenta enormemente il materiale genetico di partenza. Più elevato è il contenuto sul tampone di Rna, quindi di virus, e meno dovrà essere amplificato».
La vostra ricerca?
«Abbiamo condotto uno studio su 133 ricercatori del Mario Negri e 298 dipendenti della Brembo. In tutto, quaranta casi di tamponi positivi. Ma la positività di questi tamponi emergeva solo con cicli di amplificazione molto alti, tra 34 e 38 cicli, che corrispondono a 35.000-38.000 copie di Rna virale».
Cosa significa?
«Che sono casi di positività con una carica virale molto bassa, non contagiosa. Li chiamiamo contagi, ma sono persone positive al tampone. Commentare quei dati che vengono forniti ogni giorno è inutile, perché si tratta di positività che non hanno ricadute nella vita reale».
Quanto dobbiamo amplificare per avere una positività contagiosa?
«Sotto le centomila copie di Rna non c’è sostanziale rischio di contagio, secondo un lavoro appena pubblicato da Nature e confermato da diversi altri studi. Quindi, nessuno dei “nostri” 40 positivi risulterebbe contagioso. Questo significa che il numero dei nuovi casi può riguardare persone che hanno nel tampone così poco Rna da non riuscire neppure a infettare le cellule. A contatto con l’Rna dei veri positivi, quelli di marzo e inizio aprile, le cellule invece morivano in poche ore».
Abbia pazienza, ma uno studio del Mario Negri non fa primavera.
«Infatti. Uno studio delCenter for Disease Prevention della Corea su 285 persone asintomatiche positive ha rintracciato 790 loro contatti diretti. Quante nuove positività? Zero. E le risparmio altri studi che vanno in questa direzione».
Scusi, prima contavano solo i tamponi, e ora non è più così?
«Adesso ne sappiamo di più. L’Iss e il governo devono qualificare le nuove positività, o consentire ai laboratori di farlo, spiegando alla gente che una positività inferiore alle centomila copie non contagiosa, quindi non ha senso stare a casa, isolare, così come non è più troppo utile fare dei tracciamenti che andavano bene all’inizio dell’epidemia».
Non le sembra che a Vo’ Euganeo e in Veneto abbiano funzionato bene?
«E infatti penso che il professor Crisanti abbia fatto un grande lavoro, agendo subito e con decisione. Quel metodo, doppio tampone e tracciamento, va bene per un piccolo focolaio. Ma se il virus circola da mesi e poi esplode come accaduto in Lombardia, quel metodo rischia di diventare controproducente, a meno di avere a disposizione una organizzazione pazzesca tipo Wuhan».
Sta dicendo che l’attuale sistema basato sui tamponi è sbagliato?
«Niente affatto. Ma sta andando avanti in modo burocratico con delle regole che non tengono conto di quello che sta emergendo dalla letteratura scientifica».
Lei stesso mi ha detto che ci vuole minimo un anno prima che la comunità scientifica e i governi recepiscano i risultati degli studi.
«In questo caso specifico sarebbe meglio accelerare, altrimenti si crea un panico ingiustificato».
Come si spiega che la stragrande maggioranza dei nuovi casi viene registrata solo in una regione?
«C’è stata una enorme quantità di malati, il virus è girato moltissimo, e questi sono i residui di quella diffusione».
Non la preoccupa il fatto che anche ieri siano stati registrati 216 nuovi casi in Lombardia su 333 in tutta Italia?
«No, se sono positivi allo stesso modo di quelli della nostra ricerca, ovvero con una positività ridicolmente inferiore a centomila. Perché non possono contagiare gli altri».
E se invece non lo sono?
«C’è solo un modo per scoprirlo. Bisogna dire quanto Covid-19 c’è nelle nuove positività. E quello che sto chiedendo. Il virus è lo stesso, certo. Ma per ragioni che nessuno conosce, e forse per questo c’è molta difficoltà ad ammetterlo, in quei tamponi ce n’è poco, molto meno di prima. E di questo va tenuto conto».
Sta facendo l’avvocato difensore della Lombardia?
«Non ho alcuna ragione per esserlo. Sia per la mia sensibilità politica che per la mia storia professionale, entrambe ben lontane dai principi alla base della sanità lombarda. Credo di essere conosciuto anche per aver avversato come nessun altro quel modello, basato com’era su libera scelta e mercato. Ma sono anche un medico, ho il dovere di dire le cose come stanno».
Coronavirus, Palù: «Asintomatico il 95% dei positivi. Chiudere tutto? No, basta con l’isteria»- Corriere.it
Coronavirus, il virologo Palù: «Il 95% dei positivi è asintomatico. Chiudere tutto? No, basta con l’isteria»
Il professore emerito di Microbiologia e Virologia all’Università di Padova: «Il numero che conta veramente è quello dei ricoverati in terapia intensiva»
di Adriana Bazzi
23 ottobre 2020
«Confusione»: se si dovesse riassumere, in una parola, la situazione Covid-19 in Italia oggi, questa sarebbe la più indicata, almeno nella testa della gente. Come uscirne? Intanto partiamo dalle impressionanti cifre dei bollettini giornalieri: ieri si parlava di 19.143 «contagi» o, in alternativa, di «casi» oppure di «positivi», tutti intercettati con i famosi tamponi. In crescita esponenziale. Ma che cosa questi termini nascondono in realtà? Lo chiediamo al professor Giorgio Palù, un’autorità indiscussa nel campo della virologia, professore emerito dell’Università di Padova e past-president della Società italiana ed europea di Virologia.
Professor Palù, la gente è sconfortata e non sa più a chi credere. Come rispondere?
«C’è tanto allarmismo. È indubbio che siamo di fronte a una seconda ondata della pandemia, ma la circolazione del virus non si è mai arrestata, anche se, a luglio, i casi sembravano azzerati, complice la bella stagione, l’aria aperta, i raggi ultravioletti che uccidono il virus. Poi c’è stato il ritorno dalle vacanze, la riapertura di tante attività e, soprattutto, il rientro a scuola».
Risultato: i numeri dei «casi» sono in aumento. Come interpretarli correttamente?
«Ecco, parliamo di “casi”, intendendo le persone positive al tampone. Fra questi, il 95 per cento non ha sintomi e quindi non si può definire malato, punto primo. Punto secondo: è certo che queste persone sono state “contagiate”, cioè sono venuti a contatto con il virus, ma non è detto che siano “contagiose”, cioè che possano trasmettere il virus ad altri. Potrebbero farlo se avessero una carica virale alta, ma al momento, con i test a disposizione, non è possibile stabilirlo in tempi utili per evitare i contagi».
Altri motivi per cui certe persone «positive» non sono «contagiose»?
«Perché potrebbero avere una carica virale bassa, perché potrebbero essere portatrici di un ceppo di virus meno virulento oppure perché presentano solo frammenti genetici del virus, rilevabili con il test, ma incapaci di infettare altre persone».
Allora, riassumendo: so che certe persone sono positive al tampone, so che sono asintomatiche, quindi non malate, so, però, che in una certa percentuale di casi (non è possibile stabilire quanto grande) possono contagiare altri. E, quindi, come comportarsi, visto che a Milano, per esempio, si è dichiarato il fallimento della possibilità di tracciare i contatti?
«Ci si dovrebbe attivare nel caso si individuino dei “cluster” (traduzione: raggruppamenti, ndr): quando, cioè, il positivo è venuto a stretto contatto con altre persone in un ambiente di lavoro, a scuola o in famiglia. Allora si dovrebbero fare i tamponi a tutti».
Quindi, conoscere i dati giornalieri, come da bollettini, sui contagi/casi/positivi non è, in definitiva, utile?
«Quello che veramente conta è sapere quante persone arrivano in terapia intensiva: è questo numero che dà la reale dimensione della gravità della situazione. In ogni caso questo virus ha una letalità relativamente bassa, può uccidere, ma non è la peste».
A che cosa attribuisce l’attuale impennata di casi?
«Certamente alla riapertura delle scuole. Il problema non è la scuola in sé, ma sono i trasporti pubblici su cui otto milioni di studenti hanno cominciato a circolare. Tenere aperte le scuole è, però, indispensabile».
Lei è contrario o favorevole a nuovi lockdown?
«Sono contrario come cittadino perché sarebbe un suicidio per la nostra economia; come scienziato perché penalizzerebbe l’educazione dei giovani, che sono il nostro futuro, e come medico perché vorrebbe dire che malati, affetti da altre patologie, specialmente tumori, non avrebbero accesso alle cure. Tutto questo a fronte di una malattia, la Covid-19, che, tutto sommato ha una bassa letalità. Cioè non è così mortale. Dobbiamo porre un freno a questa isteria».
Parliamo adesso di quel 5 per cento di persone positive al tampone e con sintomi. Che fine fanno?
«Chi ha sintomi gravi (polmonite, ndr) viene ricoverato. Ma ci sono anche i “ricoveri sociali”, mi informano i clinici. Persone che hanno disturbi lievi, ma non possono stare a casa perché sono soli o perché possono infettare altre persone in famiglia o perché sono poveri e non sanno dove andare».
Come funziona l’assistenza domiciliare delle persone positive?
«Se ne dovrebbero occupare i medici di famiglia, ma non esistono regole e protocolli che li orientino nella scelta delle terapie. Sono lasciati soli».
COMMENTO BREVE: E bravo Palù, quindi lei sarebbe un grande luminare della medicina. Contro il lockdown perché in fondo è una malattia che ha una 'bassa letalità'. Infatti, dal 1 ottobre ad oggi abbiamo avuto quasi 40.000 morti. Ma poteva andare peggio, eh. I dottori non assistono i malati, e poi ci si lamenta che corrono 'a ricoverarsi' perché 'preda dell'isteria'? E così via.
Questo è il grande scienziato dell'infodemia e che era tra i tre (gli altri Zangrillo e Bassetti) preferiti da Salvini come comitato tecnico scientifico.
Di recente, il grande scienziato di cui sopra, quello ch aveva dato dello zanzarologo a Crisanti, è diventato il NUMERO UNO DI AIFA, grazie alla nomina dalla conferenza Stato-Regioni. Cioé: invece di premiare Crisanti per avere salvato il Veneto dalla 1a ondata, si premia Palù che non ha fatto praticamente NULLA per fermarla. Chiaro o no?
E adesso Palù apre anche agli anticorpi monoclonai.
Monoclonali, Palù apre alla sperimentazione. L'Aifa riscrive la vicenda del "trial mancato", ma finisce per ammettere l'occasione persa - Il Fatto Quotidiano
Monoclonali, Palù apre alla sperimentazione. L’Aifa riscrive la vicenda del “trial mancato”, ma finisce per ammettere l’occasione persa
“Stiamo valutando una sperimentazione nei prossimi giorni”. Sui farmaci a base di anticorpi il neopresidente dell'Agenzia ha impresso la svolta. “Sono un sicuro presidio nel momento in cui non riusciremo a fare il vaccino a tutti". Ma l'ente difende la sua inerzia ricostruendo a suo modo l'occasione lasciata cadere nel nulla di sperimentarli gratis già a novembre. "Mai arrivata proposta di cessione gratuita", ma perché l'Aifa stessa non l'ha più chiesta. "Arrivata solo quella di autorizzazione alla vendita". Ma il ministero della Salute ormai poteva solo comprare il Bamlanivimab. Ecco come sono andate le cose
di Thomas Mackinson | 23 DICEMBRE 2020“L’Aifa ha interesse a sperimentare i monoclonali”. Sui farmaci a base di anticorpi Giorgio Palù ieri ha impresso la svolta all’agenzia che presiede dal 4 dicembre. Dopo le rivelazioni del Fatto ha messo il punto all’ordine del giorno riaprendo la strada che, per ragioni poco chiare, era stata chiusa: “Sono un sicuro presidio nel momento in cui non riusciremo a fare il vaccino a tutti. Stiamo valutando una sperimentazione nei prossimi giorni”. In verità lo sostiene da sempre, ma per riaprire il discorso tocca cancellare la macchia: l’occasione mancata di sperimentare già a novembre 10mila dosi di Bamlanivimab, il farmaco sviluppato da Eli Lilly contro il Covid-19, a beneficio di altrettanti pazienti e a costo zero.
Nicola Magrini, dg dell’Aifa, s’intesta la smentita di una storia che il Fatto ha ricostruito – in forza di documenti e testimonianze dirette – e di cui prima nulla si sapeva. Magrini, che mai ha accettato di parlarne, parla ora di “una generica disponibilità a collaborare” della multinazionale di Indianapolis. Sostiene che l’agenzia non ha ricevuto alcuna proposta di “cessione gratuita delle dosi” bensì una richiesta di autorizzazione alla vendita, non alla sperimentazione. E che in ogni caso: “Non è vero che abbiamo rifiutato l’accesso in Italia”.
Racconta tutt’altro la documentazione in nostro possesso. Tutti i decisori pubblici coinvolti, a partire dallo stesso Magrini, fin dal 7 ottobre erano chiamati a valutare esclusivamente la proposta di un “trial clinico-pragmatico” gratuito che avrebbe garantito al nostro Paese ormai schiacciato dalla seconda ondata l’accesso a una delle poche cure disponibili al mondo contro il virus. Nessun documento di quelli visionati parla di vendita: un’opzione che l’Italia ha valutato solo quando il tergiversare dell’Aifa sulla sperimentazione ha reso impossibile la cessione, perché il 9 novembre il farmaco è stato autorizzato negli Usa ed è entrato in commercio.
“Il 7 ottobre il virologo Guido Silvestri da Atlanta chiamò me”, racconta ora la senatrice M5S Elena Fattori. “Mi parlò della possibilità di far avere all’Italia almeno 10mila dosi di quel medicinale a costo zero”. La senatrice chiama subito il capo segreteria di Speranza, Massimo Paolucci. “Il ministero mi diede immediato riscontro. Da lì in poi la palla passò all’Aifa dove la cosa evidentemente si è arenata, non so perché”. Una versione che coincide con quella del viceministro Pierpaolo Sileri: il giorno stesso, nel giro di 16 minuti, girò la proposta all’Aifa per le opportune valutazioni del caso: a distanza di due mesi e mezzo non ha avuto risposta. L’aspettano anche i senatori M5S della Commissione Sanità: due giorni fa hanno depositato un’interrogazione al ministro Speranza in cui chiedono, alla luce della notizie emerse, cosa intenda fare. Il presidente Palù ha risposto nei fatti, travolgendo resistenze mai chiarite a un trial clinico di monoclonali già in uso all’estero.
Sempre di questo (non di vendita) si parla ancora nella riunione del 29 ottobre tra i vertici mondiali della Lilly, il gruppo regolatorio dell’Aifa, Gianni Rezza per il ministero, Giuseppe Ippolito (Cts e Spallanzani) e lo stesso professor Silvestri che da Atlanta aveva dato impulso all’iniziativa. La conferma definitiva che quello fosse l’oggetto, mai la vendita, arriva proprio da Ippolito: in una lettera al Fatto del 18 dicembre il direttore dello Spallanzani parla appunto di “sperimentazione”, non di offerte di acquisto.
La smentita dell’Aifa gioca però con le parole, usa a sua discolpa i propri atti mancati. Sostiene, ad esempio, di non aver mai ricevuto la proposta di sperimentazione gratuita. E questo è assolutamente vero, ma non l’ha ricevuta per il semplice fatto che al termine della riunione citata l’ha lasciata cadere per palese disinteresse. La multinazionale, contattata dal Fatto nei giorni scorsi, aveva confermato: “L’interlocuzione sul trial clinico gratuito è stata interrotta allora”. Aifa però rimarca d’aver ricevuto la richiesta di autorizzazione alla vendita. Facendo così passare il sospetto che alla fine di questo si trattasse: “In data 20 novembre – si legge – l’azienda Eli Lilly ha presentato all’Aifa una offerta per l’acquisto del farmaco da parte dell’Ssn, consegnando una ipotesi di contratto alla Struttura Commissariale all’emergenza Covid-19 il giorno 25 Novembre”.
Quello che la smentita non dice è che in realtà, persa l’occasione, non poteva accadere altrimenti. Il 9 novembre l’Fda americana autorizza l’uso d’emergenza del Bamlanivimab e da quel giorno, col prezzo fissato in 1200 dollari per le prime 300mila dosi, la casa madre di Indianapolis non può più cederne 10mila gratis a un altro Paese. Tuttavia l’Italia all’improvviso è disposta anche a pagare il farmaco che poteva avere gratis: il 16 novembre il ministero della Salute riporta la multinazionale al tavolo con Arcuri per l’unica opzione rimasta: trattare il prezzo.
L’Aifa infine torna sui limiti regolatori che sono la foglia di fico di tutta la storia. “Gli anticorpi monoclonali – si legge nel comunicato – necessitano di una approvazione europea, mentre l’azienda Eli Lilly ha proposto una procedura di approvazione del farmaco in deroga a tali procedure”. Ricorda poi che Ema ha espresso un giudizio assai cauto sulle possibilità di approvare il Bamlanivimab sulla base dello studio di fase 2 che evidenziava benefici moderati e ha richiesto ulteriori dati a supporto”. Non spiega però perché quei risultati siano bastati agli altri Paesi. Gli Stati Uniti hanno acquistato un milione di dosi, in Canada ne arriveranno altre migliaia dallo stabilimento di Latina. L’Ungheria fa parte dell’Unione dal 2004 e ha autorizzato il farmaco senza aspettare l’Ema. La Germania è sulla stessa scia.
E’ stato chiarito che in Italia si poteva autorizzare senza violare la legge, bensì applicandola: la 648/1996 è stata fatta apposta per autorizzare medicinali innovativi autorizzati in altri Stati, ma non in Italia, e quelli non ancora autorizzati dall’Ema ma in corso di sperimentazione clinica. La legge è sul sito dell’Aifa, per altro, con l’elenco dei farmaci. Nel 2005, ad esempio, Aifa autorizzò il trastuzumab per il trattamento del tumore alla mammella un anno e mezzo prima dell’Ema: ed è un anticorpo monoclonale, proprio come il Bamlanivimab. Adesso, dopo l’inchiesta, la posizione dell’Aifa è cambiata. È una vera fortuna. Potevamo essere i primi d’Europa, potremmo rischiare di non arrivare ultimi. Questa, alla fine, è la storia.
Coronavirus, quando finirà? La lezione (possibile) di un’oscura «influenza russa» - Corriere.it
Articolo lunghissimo. Vale la pena di leggerlo? Assolutamente sì.
Coronavirus, quando finirà? La lezione (possibile) di un’oscura «influenza russa»Chi dovesse chiedere alla scienza la certezza di un oracolo, si sbaglierebbe. Ma in queste ore, mentre le domande sul virus (e la sua fine) si accumulano, è bene capire le origini e il funzionamento dell’epidemiologia. E guardare a quello che potrebbe essere l’unico precedente di una pandemia da coronavirus: scoppiata 130 anni fa
di Sandro Modeo (5-6-20)
Inutile girarci intorno. La domanda è una, pur ramificata in tante sotto-domande: quando Covid-19 uscirà davvero dai nostri corpi e dalle nostre menti — dal nostro paesaggio sociale? Quando sarà possibile (ri) programmare-progettare le nostre vite in scenari che non siano slogati in asincronie e asimmetrie esasperanti (tra nazioni o tra regioni; tra generazioni; tra categorie di ogni ordine e grado)? Quando potremo muoverci con un minimo di riacquista naturalezza, fuori dalla rete di coreografie goffe e incerte tratteggiate per noi dall’impatto del patogeno sulle spiagge, nei ristoranti, negli uffici, nelle scuole, sui campi da calcio, con rintocchi da Nuovo mondo huxleyano?
Com’è noto, la risposta univoca e liberatoria (una data, anche sommaria, che segni un dopo vero, non l’ennesima stazione di questo massacrante «non più-non ancora») non c’è. Ci sono «indicazioni», anche marcate, dovute a feedback più o meno positivi: l’afflosciarsi della curva per contagi e decessi (con alcuni attriti residui, Lombardia in primis) e la minor virulenza non tanto del patogeno (la questione è controversa) quanto della patologia, dovuta al lockdown, al decongestionamento ospedaliero, a (tardive) profilassi di molte RSA…
Ma queste «indicazioni» (che pure sono state sufficienti a sdoganare forme di riapertura auto-organizzata e auto-legittimata, vedi le varie movide) a molti non bastano. Troppe ombre si allungano ancora sul percorso e all’orizzonte: sul breve periodo (gli spettri di recidive e nuovi focolai, come in Corea del Sud) e soprattutto sul lungo: le eventuali nuove ondate nell’autunno-inverno di quest’anno, in stile simil-spagnola (quindi, in teoria, più aggressive); o, peggio ancora, il ripresentarsi di queste ondate su cicli pluriennali, fino al 2024, come indica uno studio-chiave uscito su Science. Fino alla prefigurazione (Washington Post del 27 maggio) che inquadra il Covid-19 in coabitazione con gli umani «per decadi», anche dopo l’eventuale messa a punto e diffusione di un vaccino. Il che — per inciso — non sarebbe necessariamente una «cattiva notizia», per echeggiare il famoso adagio del biologo-Nobel Peter Medawar, che definiva i virus «cattive notizie avvolte in una proteina». Il punto è che questi deficit previsionali non vengono visti come limiti intrinseci al set di scienze che cerca di contenerli, ma come colpe di quelle stesse scienze. O meglio, nello specifico, di quelle branche o discipline direttamente coinvolte in una pandemia: la virologia, colpevole di non saper decifrare con nitidezza cambiamenti di virulenza ovvero letalità del patogeno; l’immunologia, incapace di identificare la durata di immunità dei guariti e di produrre test sierologici efficaci; e — soprattutto — l’epidemiologia, la vera Cenerentola di questi mesi, l’oggetto prediletto dell’irrisione non solo popolar-populista, in quanto la «montagna» del suo apparato metodologico-operativo (la sovrabbondanza di imponenti e impotenti simulazioni algoritmiche) avrebbe prodotto il «topolino» di una profilassi a base di quarantene «medievali», distanziamento sociale, mascherina e lavaggio delle mani. È davvero così? O forse è il momento giusto — in questa dimensione limbica della pandemia — per andare a «vedere le carte» dell’epidemiologia (la sua storia ed evoluzione, la sua filosofia, i suoi stessi metodi)? Nella peggiore delle ipotesi, una simile verifica — su acquisizioni e fallimenti, punti di forza e debolezza — potrebbe portare alle stesse conclusioni del credo scettico, ma almeno con cognizione di causa. Nella migliore, a contemplare paesaggi nuovi o a vedere quelli consueti sotto una luce nuova, magari con qualche sorpresa proprio sulle possibili dinamiche di Covid-19 nei prossimi mesi e anni.
L’anno dei sentieri che si biforcanoUno dei momenti decisivi nell’evolversi dell’epidemiologia è il 1906, quando i sentieri si biforcano come nel giardino del racconto di Borges. A svolta microbiologica appena avvenuta (con la riconduzione delle malattie infettive — grazie a scienziati come Pasteur, Koch, Lister — a specifici agenti patogeni), emergono due posizioni o visioni in parte contrapposte.
Da un lato, quella del medico inglese William Heaton Hamer del Royal College, che vede nelle epidemie uno «schema ciclico» (per esempio le ondate «ogni 18 mesi» del morbillo) ed è il primo a individuare nel numero di suscettibili (contagiabili) una «soglia» sopra o sotto la quale un episodio epidemico può esplodere o implodere. Non solo: nella sua ottica «puramente matematica», Hamer pensa che in una comunità la chiave sia il cosiddetto «principio dell’azione di massa», cioè la densità degli stessi suscettibili moltiplicata per quella degli infettivi; conta solo il loro potenziale contatto/contagio, con guariti e/o immuni sullo sfondo, come fattore non primario nel frenare la propagazione.
Dall’altro, abbiamo il medico scozzese John Brownlee (ospedale di Glasgow), che redige per la Royal Society di Edimburgo un impressionante regesto comparativo su oltre due secoli di patologie «locali» (dalla peste di Londra del 1665 — quella descritta da Defoe — alla scarlattina di Halifax del 1880). Anche lui studia le curve matematiche, adottando in più il metodo statistico del suo maestro Karl Pearson; ma — a differenza di Hamer— è convinto che quelle curve dipendano soprattutto dalle «condizioni del germe», da un «grado di infettività» che lo rende aggressivo in certe fasi (nel «period of energy» o «germinal vitality») e tenue o innocuo in altre, quando si affloscia come «un palloncino sgonfio».
Ora, è vero che il termine «infettività» è usato in molto ambiguo (si tratta della carica vitale? dell’efficienza di trasmissione? di un loro mix?) e che Brownlee esagera nel sostenere l’irrilevanza dell’interazione tra infettivi e suscettibili. Ma l’enfasi posta sull’agente patogeno ha il merito di ricordarci il legame tra la specificità molecolare dello stesso, la sua modalità di trasmissione e le relative implicazioni epidemiologiche e di trattamento «profilattico». È un legame che osserviamo bene nel caso di un agente patogeno batterico come il colera, a lungo combattuto — come nella pandemia all’inizio degli Anni ’30 dell’800 — con severe quarantene, ad esempio quella che abbiamo descritto nella ricostruzione del «caso svedese». Quarantene — a posteriori — totalmente inutili, dato che la geniale ricostruzione medico-investigativa di John Snow nella Londra del 1854 (che individua il fattore di contagio nelle acque fognarie contaminate da escrementi) e l’isolamento dell’agente patogeno da parte di Koch nel 1882 (il vibrione già osservato da Filippo Pacini nel ’53, l’anno prima della scoperta di Snow) ne dimostrano la non-trasmissibilità «da uomo a uomo».
Eppure, il sentiero «biologico» di Brownlee resterà interrotto (o nascosto in una foresta) per lungo tempo, tanto che dobbiamo metterlo in stand-by e ricordarcene più avanti. Quello prevalentemente «matematico» di Hamer, invece, si dilaterà nella via maestra dell’epidemiologia. Con un piccolo paradosso. Gli «antefatti» di quel sentiero sono altrove: gli studi statistici di Bernoulli sul rapporto costi-benefici nel vaccino del vaiolo (poco dopo metà ‘700); o la prima applicazione alle curve epidemiche delle «catene o distribuzioni binomiali» (le stesse che interpretano le serie di lanci di monete o le estrazioni del lotto) da parte del misconosciuto medico russo Petr Dimitrovich En’ko (1889). Ma il primo, lungo e decisivo tratto è scavato da scienziati /medici tutti scozzesi, proprio come Brownlee.
L’origine del «fattore R»Scozzese è infatti il Nobel Ronald Ross, che attraverso i suoi studi rivoluzionari sulla malaria arriva a formulare intorno al 1916 una complessa «teoria degli eventi». Intendendo con «evento» ogni fenomeno in grado di tramettersi da individuo a individuo entro una popolazione, si tratti di pettegolezzi, panico o virus (così come Bernoulli applicava i suoi «calcoli del rischio», oltre che al vaccino del vaiolo, al moto dei fluidi o alle assicurazioni), Ross perfeziona con le sue equazioni differenziali il concetto di «soglia» di Hamer, ribaltando Brownlee e sostenendo che ogni epidemia (colera, influenza, peste…) flette la sua curva non per la «perdita d’infettività del patogeno», ma per la discesa del numero di suscettibili sotto un certo numero.
Scozzesi sono poi il medico William O. Kermack e il biochimico Anderson G. McKendrick: il primo dalla biografia più tormentata (un passaggio nella RAF e la cecità a 26 anni per un’esplosione in viso di soda caustica, che lo costringerà a farsi leggere i testi dagli studenti), il secondo dall’iter più regolare (capo di Kermack al Royal College di Edimburgo, lo stesso di Brownlee). In uno studio-spartiacque del 1927, i due porteranno a un perfezionamento definitivo sia il concetto di «densità di soglia» (il minimum numerico di innesco epidemico in una comunità) sia la dinamica d’implosione, dimostrando come un’epidemia possa finire anche mantenendo un numero di suscettibili, nel momento in cui «scatta un certo meccanismo nel delicato gioco tra infezioni, morti e guarigioni (con immunizzazione)». Nel cercare di decifrare quel meccanismo, formulano il famoso modello-SIR (Suscettibili - Infettivi- guariti o Recovered) e paragonano più in generale un’epidemia a un incendio potenziale, con le equazioni che cercano di leggere la curva come un fuoco che possa «accendersi, restare acceso e alla fine spegnersi». E con un corollario non da poco: quello per cui «piccoli incrementi del tasso di infezione possono causare gravi epidemie»: il primo richiamo, di fatto, su «focolai» da spegnere sul nascere e sulla necessità delle «zone rosse».
Scozzese, infine, è il malariologo George MacDonald del Ross Institute, che nel 1934-35 si trova a Ceylon per affrontare un’atipica esplosione di malaria (un terzo della popolazione contagiata e 80.000 morti): atipica perché la patologia — di casa nell’isola — si è sempre manifestata in piccoli focolai periodici, soprattutto nei bambini, immunologicamente più esposti. Vent’anni dopo, rientrato a Londra, MacDonald cercherà di risolvere l’enigma incrociando decine di variabili sugli umani e sui vettori (le zanzare) per scovare quei minimi, ma decisivi cambiamenti «nei fattori fondamentali di trasmissione»; ovvero quei «piccoli eventi dalle grandi conseguenze» rimarcati da Kermack-McKendrick. Riuscirà a trovarli: un aumento di densità di Anopheles cinque volte il normale (conseguenza di una lunga siccità) e la loro accresciuta longevità, che permette di pungere-infettarsi-ripungere. Ma, soprattutto, sarà proprio quello studio a fargli trovare il parametro-chiave delle sue ricerche: il «numero riproduttivo di base» ovvero il numero di infezioni che coinvolgono una comunità come conseguenza della presenza di un singolo caso primario non immune». Si tratta dell’ormai arcinoto R (dove R sta per reprodution rate, tasso di riproduzione, da non confondere con l’R del SIR, recovered=guarito), scandito dalla sua algebra tirannica (qui raccontata da Paolo Giordano): se è < a 1,0, l’epidemia si insabbia; se è di poco >, si espande; se è di molto >, esplode.
Con MacDonald, l’epidemiologia si avvicina al suo Graal matematico; per arrivarci, la leadership della disciplina dovrà passare dalla Scozia all’Australia.
Il serpente nell’erba matematicaPoco più di un mese fa, il 28 aprile, è scomparso a 84 anni — dopo una lunga convivenza con l’Alzheimer — Robert May. È un altro paradosso: May esce di scena in un sostanziale silenzio mediatico proprio nel momento in cui il pianeta sta lottando contra la prima pandemia del millennio anche — se non soprattutto — grazie a certe sue intuizioni/acquisizioni.
Origini nordirlandesi da parte di padre e scozzesi (manco a dirlo) da parte di madre, May è australiano come due altre figure-chiave nello studio dei patogeni: Frank Mcfarlane Burnet (Nobel per gli studi sulla selezione clonale con cui i linfociti rispondono agli «invasori») e Frank Fenner, virologo autore di un capitale studio sulla mixomatosi, che troveremo più avanti. Figlio di un brillante penalista, May si laurea in fisica teorica a Sydney per poi studiare matematica applicata a Harvard, disciplina che approfondisce (dal ’71) a Princeton, dove comincia a dialogare con biologi e ecologi sulla dinamica delle popolazioni, in particolare col geniale Robert MacArthur, che morirà prematuramente lasciando proprio a May la cattedra di zoologia. In quel contesto, May torna a una (alla) sua antica ossessione, già «scolpita» sul retro di una lavagna in un corridoio di Sydney come «problema per gli studenti»: «che cosa cavolo succede quando lambda diventa maggiore del punto di accumulazione?». Traduzione: cosa succede quado il tasso di incremento di una popolazione, poniamo di pesci — la sua tendenza ad aumentare e poi a esplodere — supera un certo punto critico?
May nota infatti che al variare del parametro di crescita, il «sistema» muta (si deforma) in modo inspiegabile. A parametro basso, lo stato è stazionario: alzandolo, comincia a oscillare tra due e poi quattro valori; alzandolo ancora, diventa imprevedibile e caotico, introducendo «un’inattesa irregolarità». Perché quel caos da una semplicissima equazione deterministica, la cosiddetta «equazione logistica delle differenze finite»? Trasferendo il problema su un grafico — secondo il suggerimento di Edward Lorenz, lo scopritore dell’«effetto farfalla» e uno dei padri della «teoria del caos» — May si imbatte in una sorpresa ulteriore: oltre il «punto di accumulazione» — quando la periodicità cede al caos — si aprono comunque delle «finestre di regolarità», «cicli stabili» , col modello di variazione della popolazione che si ripete per lo più in periodi dispari (tipo ogni 3 o 7 anni). È quello che May chiamerà «il serpente nell’erba matematica», dove l’erba sta a indicare il «rumore» entro cui si isola una figura riconoscibile. Tutti quegli studi torneranno utili quando May incontrerà nel 1975 a York — durante un convegno sulla «stabilità ecologica» — Roy M. Anderson, allora responsabile di «epidemiologia delle malattie infettive» all’Imperial College di Londra (passerà poi a Oxford). È un fortunato crossing over: May — fisico-matematico con la passione biologico-ecologica — si imbatte in un parassitologo con vocazione matematica: tanto che i due — da lì in poi inseparabili per un ventennio — porteranno l’epidemiologia all’ultimo «salto», con decine di contributi che andranno a confluire nel monumentale Infectious Diseases of Humansdel 1991.
Le tante novità introdotte da Anderson-May sono riconducibili a due, decisive. In tutti i modelli epidemiologici che abbiamo visto (Hamer 1906; Ross 1916; Kermack-McKendrick 1927; MacDonald 1956) la popolazione-ospite è ritenuta stabile, costante: se si diffonde un’epidemia di morbillo in una città di 200.000 abitanti, l’evolversi dello schema SIR (suscettibili, infettivi, guariti) non muterà quel numero, con un’ipotetica compensazione, per esempio tra morti e nascite. In Anderson-May, quel numero diventa invece una «variabile dinamica»: nel corso di un’epidemia troppi fattori lo alterano: le vittime stesse; una possibile riduzione della natalità; le emergenze sanitarie (gli «ospedali sovraffollati», proprio come con Covid- 19), e molto altro. Tra quei fattori di alterazione — chiave nella chiave — viene considerata per la prima volta anche la «coevoluzione» tra ospite e parassita, base per le prime 2 variabili (su 5) del loro modello finale: il «tasso di trasmissione» del patogeno e «il tempo di recupero degli ospiti che non soccombono all’infezione». Intrecciandosi alle altre 3 (mortalità legata allo specifico del patogeno, mortalità legata ad altre cause, consistenza — cangiante— della popolazione ospite) vanno a comporre il citato Graal epidemiologico, la cui sintesi matematica e simbolica è l’aggiornamento del «numero riproduttivo di base» di Mac Donald mutato da R in R0, ormai noto come una rockstar.
Ma la metafora del Graal, perfetta per la mistica, è evanescente nella scienza, in cui ogni teoria è falsificabile, o almeno passibile di revisioni e/o integrazioni.
La collina dei conigliUna delle acquisizioni più notevoli nella visione di Anderson-May è la smentita della «sciocchezza» secondo cui «un parassita si evolve fino a diventare innocuo per il suo ospite».
Per consolidarla, i due mostrano la perfetta aderenza del loro modello epidemiologico alla «smentita delle smentite» sul campo, il caso straziante del mixomavirus nei conigli, oggetto di uno studio ormai classico del citato virologo Frank Fenner.
In breve: nel 1859 (anno di uscita dell’Origine delle specie di Darwin) il proprietario terriero australiano Thomas Austin importa nella sua immane tenuta 24 conigli selvatici europei, che in un contesto ecologico favorevole si moltiplicano all’impazzata in tutto il continente, arrivando in meno di un secolo — nonostante il «contrappeso» della caccia — a ben 600 milioni di esemplari, via via più nocivi nel loro competere (per erba e acqua) coi conigli locali e il bestiame. Il governo autorizza allora l’importazione dal Brasile di un poxvirus, il mixoma, che nei conigli sudamericani produce solo piccole ulcere, ma che impatta su quelli europei/australiani — cioè su un’altra specie e in un altro contesto ecologico — con una letalità iniziale del 99,6%, producendo ulcere estese e la morte in 2 settimane.
Seguendo per 30 anni (1950-1980) l’evolversi del virus e della malattia, Fenner scopre come nel tempo si diversifichino numerosi ceppi, raggruppati in 5 principali, e come la selezione naturale estingua o quasi l’I e il II (più aggressivi) e il IV e il V (più innocui), favorendo (in ben due terzi dei casi) il III, ovvero un ceppo sempre ad alta letalità (67%), ma più efficiente degli altri nel rapporto letalità-trasmissibilità. E cioè: dato che il mixoma è un virus vettoriale (con la zanzara che lo preleva dalle ulcere), il ceppo più efficiente è quello che produce nei conigli lesioni abbastanza estese e abbastanza durature da consentire il prelievo più consistente per il maggior tempo possibile. I ceppi I e II uccidono troppo in fretta; il IV e il V fanno guarire troppo in fretta le lesioni; «solo i virus del ceppo III» — scrive Fenner — «rimanevano altamente infetti per tutto il periodo di sopravvivenza negli animali desinati a morire e per un tempo più lungo della media in quelli destinati a guarire»:
Prima morale: nella competizione tra ceppi virali viene sempre selezionato quello col livello di virulenza che massimizza la trasmissione (e quindi la riproduzione). Che quel livello risulti — per noi — più o meno aggressivo o letale è irrilevante nella neutralità del processo evolutivo.
Seconda morale — riassunta da Quammen in Spillover —: la regola aurea per un virus di successo non è quindi «non uccidere il tuo ospite», ma «non tagliare i ponti prima di averli attraversati». A cui va aggiunta una postilla non trascurabile.
Come non c’è un’evoluzione verso la «benignità», non c’è — tra virus e umani— nemmeno l’approdo a forme di simbiosi o mutualismo (come succede invece con i batteri, vedi quelli della nostra flora intestinale). I virologi parlano, semmai, di «armistizio», legato a diversi fattori, tra cui i mutamenti contestuali (ecologici) o la durata dell’immunità.
Anticipata in uno studio pionieristico dallo zoologo Gordon Ball (nel lontano ’43), la smentita di quell’assunto è uno dei tratti-chiave anche di un libro-spartiacque del biologo evoluzionista americano Paul Ewald, Evolution of Infectious Disease (Oxford, 1994). È un testo che ha il merito di provare a integrare nell’epidemiologia il pensiero evoluzionistico e quegli aspetti «qualitativi» delle scienze biologiche (genetica e ora genomica, immunologia, zoologia) trattati per lungo tempo come semplici variabili matematico-statistiche, prettamente quantitative.
Da Bernoulli a Ross e persino alle «teorie del caos» che hanno ispirato il lavoro di May, le «curve epidemiologiche» sono state indagate attraverso quella che si definisce in gergo «indifferenza al substrato», cioè a prescindere dalla materia (organica o no), dalle proprietà e dalle dinamiche degli oggetti in questione: cicli economici o tornadi, dicerie o — appunto — sciami virali. Invece i virus andrebbero indagati — anche sul piano epidemiologico — non solo nella loro specificità rispetto ad altri oggetti, ma anche rispetto ad altri patogeni (funghi o batteri) e nella loro unicità molecolare (genetico-genomica, di tipologia di trasmissione, di relazione col sistema immunitario dell’ospite, e così via) a livello di specie e di ceppi, che ne determinano il «comportamento» al punto da indirizzare le valutazioni predittive e le relative profilassi. Come abbiamo già visto per le «inutili» quarantene applicate a un patogeno (in quel caso batterico) non trasmissibile da uomo a uomo come il colera. È il riaffiorare dalla foresta del sentiero «biologico» avviato — pur nella sua ingenuità — da più di un secolo fa da John Brownlee. Un sentiero che in tutte le sue branche (virologia, immunologia, zoologia, genetica-genomica) va ormai definitivamente ricongiungendosi a quello matematico-statistico, che pure sta acquisendo (si legga L’algoritmo e l’oracolo di Alessandro Vespignani e Rosita Rijtano) straordinari strumenti di calcolo-computazione, e ulteriori ne acquisirà coi computer quantistici.
Sentieri che (ri)convergono: Covid 19 dalla «spagnola» alla «russa»Tutti vorremmo sapere.
Se davvero il patogeno stia esaurendo la sua spinta, secondo l’ingenuo dettato di Brownlee (che qualche clinico o virologo sembra — troppo disinvoltamente — assecondare); se almeno — in coerenza coi passaggi appena svolti — la selezione stia favorendo ceppi più funzionali alla trasmissione ma meno virulenti (argomento, al momento, a dir poco controverso); se infine — come si accennava in apertura —, simili mutazioni caratterizzeranno eventuali nuove «ondate» autunnali- invernali o negli anni a venire.
Alla ricercata disperata di «invarianze» epidemiologiche, fino adesso è stata evocata soprattutto la «spagnola», con esiti sfocati e frustranti per vari motivi, a partire dallo iato che separa un ortomyxovirus influenzale (H1N1) da un betacoronavirus come Sars-CoV-2.
Non a caso il citato studio di Science (14 aprile; revisione 22 maggio) svolge la sua proiezione sull’andamento di Sars-CoV-2 prendendo come modelli — per maggiore prossimità molecolare — proprio due betacorovirus umani «del raffreddore»: HCoV-HKU1 e — soprattutto --HCoV-OC 43. Quel «soprattutto» è legato a un suo possibile risvolto virologico-evoluzionistico poco noto, che potrebbe rivelarsi di un certo peso.
A rigore, non sono infatti conosciuti precedenti pandemici di coronavirus: gli unici ad aver solo «abbozzato» un outbreak in quella direzione (subito troncato) sono stati, com’è noto, Sars-CoV (2003-04: il virus «della Sars») e Mers-CoV (2012). Eppure, nel 2005 — nel corso del suo PhD sui coronavirus, uno dei tanti sull’onda dei sequenziamenti genici di Sars-CoV — la biologa belga Leen Vijgen studia coi colleghi proprio il virus umano di OC43, scoprendone le similarità con quello bovino (BCoV); e risalendo lungo l’albero comune — attraverso i calcoli dei tassi di mutazione che diano conto delle divergenze genetiche — trova il loro primo «antenato comune» intorno al 1890, anno del probabile spillover («salto di specie») dalla mucca all’uomo.
Si dà il caso — ecco il punto — che il 1890 (in realtà l’’89) sia l’anno d’esordio di una pandemia durata fino al ’95 e denominata «influenza russa» in quanto a lungo ricondotta a sottotipi di influenza A (H2N2 o H3N8), ma senza mai trovare conferme definitive; e che diversi studiosi riconducono invece ora proprio a HCoV-OC43, eleggendola a prima pandemia da coronavirus.
Anche qui — sia chiaro — siamo ancora nella teoria (manca la «pistola fumante»). Eppure, fatte salve le specificità geo-dinamiche (l’innesco a Bukhara nel maggio ’89 e l’approdo a San Pietroburgo tra ottobre e novembre prima di irradiarsi in Europa e in America) e quelle «storico-vettoriali» (il contagio attraverso la neonata rete ferroviaria), la diversa distribuzione dei decessi (tra 270 e 360.000 del milione complessivo in Europa, a fronte dei 13.000 in Usa), numerose — e a vari livelli — sono le analogie con Covid-19: la cadenza delle ondate (con 5 settimane tra il paziente 1 e il picco); il politropismo virale che coinvolge anche il sistema nervoso, con perdita di gusto e olfatto; la prevalenza, alla lunga, di vittime anziane, specie per complicanze cardiovascolari-renali (a differenza della «spagnola», che colpirà — specie nella seconda ondata — giovani maschi tra 18 e i 30 anni); la pressione sanitaria nelle fasi di picco (vedi, trai tanti esempi nelle capitali europee del tempo, le «baracche» nei cortili degli ospedali francesi). E non dissimile, a ben guardare (anche se condiviso con molte altre epidemie) è il passaggio zoonotico, coi pipistrelli dello Yunnan sostituiti dal bestiame afflitto da pleuropolmoniti in tutto il mondo, e i molti abbattimenti — tra 1870 e 1890 — che espongono allevatori e contadini al contatto con le secrezioni respiratorie.
Se la speculazione fosse esatta, se ne potrebbe cavare una proiezione virologico-epidemiologica favorevole, dato che HCoV-OC43 è oggi (o meglio: al momento) un «banale» virus del raffreddore (con le virgolette a indicare come anche in quella veste rappresenti, per anziani e immunodepressi, comunque una complicanza); nel senso che anche Sars-CoV- 2 — oltre a potersi inabissare come Sars-CoV — potrebbe evolvere, cioè mutare, in quella direzione (come potrebbe diventare, beninteso, più aggressivo).
Nella cornice di queste possibilità, lo studio di Science (esempio tangibile dell’attuale complessità e finezza epidemiologica nell’intrecciare modelli matematico-statistici post-Anderson-May — ne esistono a decine —, scienze biologiche e scienze umane, utili a capire i comportamenti sociali e le loro conseguenze) può dare diverse indicazioni.
In generale, sulla ciclicità: modulandola soprattutto proprio su HCoV-OC43, disegna possibili recidive fino al 2025, con cadenza non dissimile, guarda caso, a quella dell’influenza (che pure Science non cita, limitandosi a trattare OC43 come virus «da raffreddore»). Nel particolare — per cercare di avvicinane durata e intensità — affina un quadro con cui abbiamo familiarizzato.
Dando per acquisite asincronie geografiche (estati e inverni nei vari emisferi) e incidenze climatiche (i possibili picchi negli autunni-inverni), individua le variabili principali sul piano dell’immunità, da valutare (con test sierologici affidabili) sia per estensione nella popolazione che per durata individuale: fattori ambivalenti, in quanto determinanti per diradare-perimetrare i lockdown, ma — se troppo accentuati — a rischio di compromettere la messa a punto del vaccino e quindi la prevenzione di recidive annuali (come per l’influenza): senza dimenticare possibili immunità incrociate (immunità a altri coronavirus «del raffreddore», proprio come OC43 che la estendano a Sars-CoV-2) o la sovrapposizione di eventuali recidive di Covid-19 con l’influenza stagionale.
Altre variabili sono date dal tracciamento, informatico e/o manuale (integrato eventualmente dai tamponi): anche questo un fattore-chiave nel poter diradare- allentare i lockdown, ma la cui scarsa estensione o inefficienza obbliga alla strategia alternativa di potenziare o almeno monitorare i reparti di terapia intensiva, al fine di prevenire i sovraccarichi già visti.
L’algoritmo e l’oracoloQuello appena scorso è un quadro previsionale — non bisogna dimenticarlo — che sconta due condizionamenti di fondo: il fatto che l’indagine epidemiologica sui coronavirus non abbia precedenti nella metrica degli «intervalli seriali» (che non esistano cicli indicativi come invece per l’influenza, tranne — eventualmente — la pandemia «russa» riconducibile a HCoV-OC43); e la dipendenza di ogni proiezione epidemiologica dai feedback resi via via dall’evolvere dell’epidemia-pandemia: un continuo aggiornamento-ridisegnamento (beninteso non esente da errori; vedi i calcoli di Neil Ferguson dell’Imperial College) scambiato da parte dell’opinione pubblica per incertezza o contraddittorietà, e magari accostata alle «dissonanze cognitive» prodotte dal narcisismo incrociato di certi virologi o infettivologi.
E qui veniamo al nodo decisivo. Quella stessa parte di opinione pubblica — accentuando per l’epidemiologia il pregiudizio e la sbrigatività nutriti per la scienza in genere — dà per scontato (o ridimensiona come «scoperta dell’acqua calda») acquisizioni e procedure che scontate non sono per nulla, lamentando invece (con un mix di fastidio e sarcasmo) l’assenza di certezze e soluzioni sui tanti «fronti aperti» di un oggetto o un processo indagato (in una pandemia, ma non solo).
Prendiamo le «banalità profilattiche» della Fase-1 di cui si diceva in apertura («il topolino» prodotto dalla montagna degli algoritmi epidemiologici). È vero, la quarantena è una pratica «medievale» (nasce a Dubrovnik nel 1377, nella coda della Morte Nera veneziana); ma ora sappiamo quando applicarla e quando no (vedi, di nuovo, il colera) e in che termini di durata e estensione in rapporto all’evolversi di un’epidemia. Lo stesso vale per la «distanza di sicurezza»: ce n’è traccia intuitiva già nell’Antico testamento (Levitico), come antidoto alla lebbra; ma è solo nel 1930 che un giovane ricercatore di Harvard, William Wells, stabilisce in «sei piedi» la distanza anti-contagio per i droplet di tbc; e se in questi mesi aggiornamenti continui l’hanno modulata su Covid-19 (secondo le informazioni che arrivavano su modalità di contagio e carica virale) è stato per aumentare la nostra sicurezza. Persino una protezione «elementare» come la mascherina (riconducibile alle grevi strutture a becco dei «medici della peste» secenteschi) appare nella sua modernità per forma e materiali solo nel 1897 (sul volto del chirurgo francese Paul Berger), per estendersi a uso anti-contagio nel 1911 durante la peste polmonare cinese (nel design di Wu Lien-teh del Chinese Imperial College, poi adottato durante la spagnola). Quanto al lavaggio delle mani, anche i meno avvertiti dovrebbero conoscere la storia sublime e tragica di Ignác Semmelweiss, medico ungherese che — pur tra osteggiamenti «baronali» che lo porteranno al manicomio — riesce a far adottare quella profilassi a medici e studenti di ostetricia, salvando migliaia di vite dalla febbre puerperale. Non a caso, Cèline gli dedicherà la tesi di laurea.
E a cornice di tutto questo, tutt’altro che «scontata» è anche la scelta pro o anti-quarantenista, che in altro articolo abbiamo ricondotto anche all’identità politico-economica e storico-antropologica di ogni Paese. Non era scontato, cioè — davanti alla «coperta corta» del dilemma «health or wealth», salute o economia — «chiudere» o tentare vie più arrischiate come quella della Svezia. Può darsi che il lockdown italiano (del Paese — non scordiamolo - che ha fatto da avamposto occidentale alla pandemia) sia stato eccessivo e «tirannico». Ma nel dubbio, sarà forse utile rileggersi una «microstoria» esemplare della spagnola in America: la chiusura di Saint Louis — sotto la guida di un medico geniale e avveduto come Max C. Starkloff — versus l’«apertura totale» di Philadelphia. Perché è vero che — oltre a subire minori danni economici — alla seconda ondata Philadelphia avrà un po’ di morti meno della città del Missouri (dovuti a una sorta di immunità di gregge); ma l’ecatombe della prima — a fronte del numero basso di decessi dovuti alla strategia di Starkloff — chiuderà il saldo delle vite risparmiate nettamente a favore di Saint Louis.
Ogni critica alla scienza, ai suoi errori, alle sue ambiguità, ai suoi deficit di chiarezza — è persino umiliante ricordarlo — non è solo auspicabile, ma necessaria, specie in una democrazia non vuotamente formale. Ma perché quella critica sia tale occorre un’opinione pubblica informata, all’altezza del compito. Chi invece sbeffeggia gli algoritmi pretendendo ciò che non possono offrire (l’infallibilità dell’oracolo) è meglio guardi altrove; dalla scienza non potrà trovare risposte che lo soddisfino. Non è necessario scomodare Dio; basterà rivolgersi a un Pappalardo qualsiasi.
Il mondo è pieno e sorprendente, nel bene e nel male.
L'altra sera leggevo che il temibile icesberg A68 (4.000+kmq) che minacciava la popolatissima (di animali) Georgia del Sud, si è fratturato e adesso dirige verso Sud, pericolo scampato. Nel 2004 un altro icesberg causò molti danni alla popolazione di animali dell'isola, più che altro perché fece morire di fame tanti cuccioli e pulcini mentre i genitori cercavano di trovare il cibo per loro in mezzo a quelle decine di km di ghiaccio, che se non altro, nell'arco di 3-4 mesi si spaccarono e dispersero più volte e solo una parte ridotta rimase entro l'estate, per distruggersi totalmente tra il 2004 e il 2005. Però non fu bello e stavolta si pensava che sarebbe durata la permanenza dell'icesberg, fino a 10 anni nel futuro. Ma per fortuna no, non è stato così. Adesso si dirige a Sud ed è pieno di frammenti e spaccature. Bye bye A68.
DUNQUE, torniamo a noi.
Avevo già definito molto negativamente l'esime super-professore Palù, ma adesso vengo a sapere che è diventato niente di meno che il N.1 di AIFA. Carica di nomina POLITICA, sia ben chiaro.
E allora questo spiega bene il perché di come Palù, che inizialmente parlava apertamente di pandemia, abbia cambiato rapidamente idea.
PROFEZIA FASSINIANA N.1.
Coronavirus, 10 esperti: «Emergenza finita». Ma è scontro nella comunità scientifica - Corriere.it
Coronavirus, 10 esperti: «Emergenza finita». Ma è scontro nella comunità scientificaZangrillo, Clementi, Remuzzi e altri sette scienziati firmano un documento sostenendo che i dati ospedalieri consentano di affermare che il coronavirus è, oggi, meno aggressivo. Altri colleghi spingono per il mantenimento della prudenza: «Non è finita»
24 giugno 2020 (modifica il 24 giugno 2020 | 16:20)
di Margherita De Bac
Coronavirus meno aggressivo? Epidemia in dismissione? Sì, sarebbe questa l'attuale condizione del Sars-CoV-2 secondo una «cordata» di esperti di varia estrazione medica che adesso hanno ribadito le loro teorie in un documento unico, dopo essersi espressi individualmente.
Chi si ammala oggi di Covid-19 avrebbe un basso rischio di aggravarsi perché il virus ha una carica virale più debole e anche meno contagiosa. Firmato Alberto Zangrillo, Matteo Bassetti, Arnaldo Caruso, Massimo Clementi, Luciano Gattinoni, Donato Greco, Lucà Lorini, Giorgio Palù, Giuseppe Remuzzi e Roberto Rigoldi il cui manifesto è stato ripreso dal quotidiano Il Giornale. Un partito scientifico trasversale formato da virologi, anestesisti ed epidemiologi, idealmente schierato contro la comunità dei colleghi più prudenti, convinti che il virus abbia purtroppo ancora molte cose da dire, che non sia affatto cambiato né si sia indebolito e che l’apparente, ridotta bellicosità sia frutto delle misure di distanziamento adottate durante il lockdown.
Silvio Brusaferro, Franco Locatelli, Giuseppe Ippolito e Giovanni Rezza, del comitato tecnico scientifico di supporto al governo nelle decisioni concernenti le azione da portare avanti, non perdono occasione per lanciare un messaggio chiaro. Il virus c'è ancora e non è meno aggressivo. Però circola meno ed è pronto a tirar fuori le unghie. Basta vedere quanto sta accadendo in Germania, nell’impianto di macellazione, e in Portogallo dove è stato necessario ripristinare larghe zone chiuse nella provincia di Lisbona. O, andando più lontano, in Brasile e India dove l’epidemia è nella sua piena espansione. In Italia i focolai che di tanto in tanto compaiono sono un monito.
IL DIBATTITO TRA ESPERTI
- Remuzzi: «I nuovi positivi non sono contagiosi, stop alla paura»
- Crisanti: «Virus più debole? Sono chiacchiere, non è scienza»
- Il virus è più debole? Il dibattito tra gli esperti
- Lo studio del San Matteo di Pavia: «I debolmente positivi non infettano»
- Lo studio del San Raffaele: «Il virus è meno capace di replicarsi»
- Fumagalli (Niguarda): «Il virus ci ha già ingannato in passato»
- Galli: «Il virus si è rabbonito? Demenziale e irresponsabile sostenerlo»
- Ci saranno mutazioni? Il virus si sta esaurendo? La lezione di una misteriosa «influenza» russa
Dove porteranno queste contrapposizioni sulla natura del virus? Sicuramente stanno intanto portando confusione nell’opinione pubblica, che sembra aver perso di vista i messaggi chiave, ispirati alla prudenza e al mantenimento delle regole.
Crisanti: «Coronavirus più debole? Solo chiacchiere, non è scienza» - Corriere.it
Crisanti: «Coronavirus più debole? Solo chiacchiere, non è scienza»
Il professore del «modello Veneto» contro lo studio effettuato in Veneto su 6mila tamponi che dimostrerebbe che la carica virale di Sars-CoV-2 si è indebolita: «Chi dice che il virus non è contagioso?»
di Alessandro Macciò
21 giugno 2020
PADOVA — Una stroncatura senza mezzi termini. Lo studio sui risultati dei tamponi realizzato per conto della Regione da Roberto Rigoli, direttore dell’ unità complessa di Microbiologia a Treviso e coordinatore delle microbiologie del Veneto, sbatte contro il pollice verso di Andrea Crisanti, il direttore del laboratorio di Padova che prima ha lanciato il modello dei tamponi a tappeto con lo studio sulla popolazione di Vo’ e poi è entrato in rotta di collisione con Luca Zaia per il risalto dato dal governatore a Francesca Russo, direttore del dipartimento di Prevenzione, indicata come l’autrice del piano regionale che ha permesso di arginare la pandemia.
L’indagine presentata ieri da Rigoli (e anticipata dal Corriere del Veneto) è stata condotta proprio sotto la supervisione di Russo, e in sostanza afferma che il coronavirus si sta «spegnendo». Una tesi in contrasto con quanto sostenuto più volte da Crisanti, secondo cui dietro ai dati apparentemente rassicuranti delle ultime settimane «c’è qualcosa che non sta funzionando», e in particolare il fatto che la curva dei contagi resta bassa ma costante.
Crisanti, il virologo «ribelle» che ha puntato tutto sui tamponi «a tappeto», in controtendenza rispetto alle direttive (dell’epoca) dell’Oms e del governo, ieri ha confermato che lavorerà per la procura di Bergamo come consulente nell’ inchiesta per epidemia colposa sulla mancata zona rossa di Alzano e Nembro («È la prima volta che vengo chiamato a svolgere un ruolo così delicato, sono molto contento e ce la metterò tutta per aiutare i pm ad arrivare alla verità»), ma ha anche etichettato come «chiacchiere» quelle che invece Rigoli ha presentato come «scoperte incredibili».
Professor Crisanti, il lavoro del suo collega Rigoli mette in evidenza due aspetti: il primo è che quasi tutti i positivi sono asintomatici o hanno sintomi lievi, il secondo è che molti di loro non sono contagiosi perché il loro organismo contiene solo frammenti di virus ormai inerti. Cosa ne pensa?
«Chi parla dell’ infettività di questo virus non sa quello che dice, perché l’infettività si misura sperimentalmente, e sull’uomo non è possibile fare nessun esperimento e non esiste un modello animale. Senza numeri e senza misura non è scienza, sono solo chiacchiere. Siccome non è possibile fare sperimentazioni di infettività sull’uomo, nessuno sa qual è la dose infettiva di questo virus e non c’è nulla da commentare: non si può commentare con un argomento scientifico una cosa che non è Scienza».
Secondo lei si tratta di uno studio privo di valore?
«Io lo studio non l’ho visto, mi baso sul fatto che non esistono modelli animali. Sarebbe interessante capire come hanno fatto queste misurazioni, ma bisogna chiederlo a loro. Qual è la dose infettiva? Lo sa qualcuno? Non lo sa nessuno. Sarebbe interessante sapere sulla base di quali misure sono state fatte queste affermazioni. Se la carica virale è bassa, chi lo dice che il virus non è infettivo? Per alcune malattie basta un batterio per provocare l’ infezione, ma lo sappiamo perché c’ è un modello animale».
Questo studio sembra in linea con la ricerca dell’ istituto Mario Negri, stando alla quale i nuovi casi positivi hanno una carica virale molto bassa. Anche Alberto Zangrillo, direttore della terapia intensiva dell’ ospedale San Raffaele di Milano, aveva detto che «clinicamente il virus non esiste più». La preoccupa questa tendenza a ridimensionare il fenomeno?
«Per me queste letture vengono fatte senza sapere il perché di quello che sta succedendo. È indubbio che i casi attuali non sono gravi, non lo discuto, ma il 22 febbraio a Vo’ c’ erano 150 persone positive e in ospedale ce ne sono andate tre, mentre gli altri avevano un’infezione simile a quella che sta circolando adesso. Allora c’è da chiedersi: che cosa succedeva prima che scoppiasse tutto questo? E noi che cosa stiamo vedendo?».
Quindi l’entità della carica virale è poco indicativa?
«All’epoca la malattia non aveva dato nessuna notizia di sé, questo significa che le prime infezioni erano a carica bassa e molto simili a quelle che vediamo adesso. Lo scenario non è cambiato, è cambiato il nostro punto di vista su quello che osserviamo».
Coronavirus in Veneto, lo studio: «Il virus? Ora è debole e poco contagioso»
Rigoli: «Oggi risulta meno aggressivo»
di Andrea Priante
TREVISO«Stiamo scoprendo delle cose incredibili». Pare illuminarsi, Roberto Rigoli, parlando dei «suoi» virus. «Mai un’infezione respiratoria era stata studiata in modo tanto approfondito, con tamponi ripetuti anche mesi dopo la guarigione» spiega il direttore dell’unità operativa complessa di Virologia di Treviso. È l’uomo scelto dal governatore Luca Zaia per coordinare le attività delle microbiologie del Veneto. E all’indomani del superamento della soglia simbolica dei duemila morti, proprio la Regione oggi presenterà l’ultima di queste «cose incredibili» emerse grazie al lavoro dei nostri laboratori. Una scoperta che potrebbe dare voce a chi chiede un definitivo allentamento delle misure anti-Covid.
Roberto Rigoli20 giugno 2020 (modifica il 20 giugno 2020 | 12:48)
Andiamo con ordine. Chi ci ha lavorato? «È un progetto condiviso col direttore del servizio Prevenzione della Regione, Francesca Russo, e voluto fortemente da Zaia. Col sottoscritto ci hanno lavorato i colleghi Giuliana Lo Cascio, Mario Rassu, e Claudio Scarparo».
Di cosa si tratta? «È uno studio preliminare fatto su 60mila tamponi che finora ha coinvolto le Usl di Vicenza, Verona, Treviso e Mestre, e presto si allargherà a tutto il Veneto. Siamo partiti 15 giorni fa, andando a vedere i risultati dei test. I positivi al Covid ad esempio erano 210».
E cosa avete notato?«Innanzitutto, che la quasi totalità dei positivi è asintomatica o ha sintomi lievi, paragonabili a una normale influenza. Quindi oggi il virus è poco aggressivo e, avendo una carica molto bassa, risulta meno contagioso. Di conseguenza, anche se venisse trasmesso, risulterebbe depotenziato rispetto a quello che, ad esempio, dovevamo affrontare un mese fa. Infine, osserviamo che una buona parte di chi risulta positivo al tampone, in realtà non è infettante - cioè non è in grado di contagiare altre persone - perché dentro di sé ha un virus “inerte” poiché incompleto».
Partiamo dalla prima scoperta. Perché oggi il Covid è meno aggressivo? «Ancora non sappiamo il motivo. Per ora ci limitiamo a rilevare il fatto che nessuno dei positivi ha avuto bisogno di cure ospedaliere».
Il caldo estivo ha influito? «Mah, non è sufficiente a spiegare questa perdita di virulenza. In fondo, in Brasile il Covid ne sta ancora combinando di tutti i colori».
Secondo fattore: positivi che, in realtà, non lo sono... «Qui occorre una premessa, magari un po’ noiosa ma necessaria. I batteri si moltiplicano sdoppiandosi: da uno a due, da due a quattro, e così via. Il virus si comporta diversamente: entra nella cellula e questa comincia a produrre “pezzi” di microorganismo. Così la cellula infettata costruisce il capside, la proteina S, la corona… Parti che poi vengono assemblate consentendo al virus, finalmente completo, di infestare altre parti dell’organismo. A volte però capita che l’agente patogeno non si replichi più, e così i “pezzi” non assemblati restano nelle cellule, nel caso del Covid 19 in quelle bronchiali. Ma questi frammenti tendono a risalire, ad esempio con un colpo di tosse. Ecco spiegato perché i tamponi, su alcuni malati, sono passati da positivi a negativi per poi tornare positivi: quelle persone sono effettivamente guarite ma nei campioni prelevati in gola o nel naso ci sono alcuni di questi frammenti di virus che, seppur inerti, vengono rilevati attraverso dei cicli di amplificazione molto alti».
Quindi risultano positivi anche coloro che, in realtà, sono guariti e mantengono nei bronchi questi frammenti del virus. Sicuri che non siano pericolosi? «Il virus è morto. Non hanno alcun effetto e non possono contagiare altre persone».
Alla luce di tutto questo, in autunno cosa accadrà? «Non gioco a fare l’indovino, mi limito a osservare i dati di fatto. E sulla base di quanto stiamo vedendo, a settembre potranno esserci tre scenari possibili. Il primo è che il virus torni con la virulenza di prima, ma a questo punto lo ritengo assai poco probabile. La seconda possibilità è che si ripresenti con una forza pari a quella di una normale influenza, con patologie in forma lieve: più o meno, la situazione attuale. Infine, il Covid 19 potrebbe scomparire definitivamente, come capitò alla Sars tra il 2003 e il 2004».
Sarebbe la fine di un incubo. «È presto per cantare vittoria. Ma se si confermeranno i primi risultati ottenuti dallo studio, allora presto si potrebbero allentare le restrizioni previste dalle linee guida in merito all’uso dei dispositivi e alla distanza sociale. E allora si potrà tornare, almeno in parte, alla vita di prima».
Coronavirus, Remuzzi: «I nuovi positivi non sono contagiosi, stop alla paura»
Il direttore dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri e lo studio sui tamponi:
«La carica virale è diventata molto bassa»
di Marco Imarisio
19 giugno 2020
Professor Remuzzi, richiudere la Lombardia?
«Ma per carità. Piuttosto, l’Istituto superiore della Sanità e il governo devono rendersi conto di quanto e come è cambiata la situazione da quel 20 febbraio ormai lontano. E devono comunicare di conseguenza. Altrimenti, si contribuisce, magari in modo involontario, a diffondere paura ingiustificata».
Anche con una media giornaliera del 70-80 per cento dei nuovi contagi concentrati in una sola regione?
«Bisogna spiegare cosa sta succedendo alla gente, che giustamente si spaventa quando sente quei dati. Qui all’Istituto Mario Negri stiamo per pubblicare uno studio, che contiene alcune informazioni utili per capire, almeno così mi auguro».
Di cosa si tratta?
«Una breve premessa, spero non troppo noiosa, sul funzionamento dei tamponi. Per la ricerca del virus si usa la tecnica della reazione a catena della polimerasi (Pcr), in grado di amplificare alcuni specifici frammenti di Dna in un campione biologico».
Fino a qui tutto bene.
«Per il Covid-19, funziona così. Il genoma del coronavirus presente sui tamponi, ovvero l’Rna, viene trascritto a Dna e amplificato mediante tecnica Pcr, che aumenta enormemente il materiale genetico di partenza. Più elevato è il contenuto sul tampone di Rna, quindi di virus, e meno dovrà essere amplificato».
La vostra ricerca?
«Abbiamo condotto uno studio su 133 ricercatori del Mario Negri e 298 dipendenti della Brembo. In tutto, quaranta casi di tamponi positivi. Ma la positività di questi tamponi emergeva solo con cicli di amplificazione molto alti, tra 34 e 38 cicli, che corrispondono a 35.000-38.000 copie di Rna virale».
Cosa significa?
«Che sono casi di positività con una carica virale molto bassa, non contagiosa. Li chiamiamo contagi, ma sono persone positive al tampone. Commentare quei dati che vengono forniti ogni giorno è inutile, perché si tratta di positività che non hanno ricadute nella vita reale».
Quanto dobbiamo amplificare per avere una positività contagiosa?
«Sotto le centomila copie di Rna non c’è sostanziale rischio di contagio, secondo un lavoro appena pubblicato da Nature e confermato da diversi altri studi. Quindi, nessuno dei “nostri” 40 positivi risulterebbe contagioso. Questo significa che il numero dei nuovi casi può riguardare persone che hanno nel tampone così poco Rna da non riuscire neppure a infettare le cellule. A contatto con l’Rna dei veri positivi, quelli di marzo e inizio aprile, le cellule invece morivano in poche ore».
Abbia pazienza, ma uno studio del Mario Negri non fa primavera.
«Infatti. Uno studio delCenter for Disease Prevention della Corea su 285 persone asintomatiche positive ha rintracciato 790 loro contatti diretti. Quante nuove positività? Zero. E le risparmio altri studi che vanno in questa direzione».
Scusi, prima contavano solo i tamponi, e ora non è più così?
«Adesso ne sappiamo di più. L’Iss e il governo devono qualificare le nuove positività, o consentire ai laboratori di farlo, spiegando alla gente che una positività inferiore alle centomila copie non contagiosa, quindi non ha senso stare a casa, isolare, così come non è più troppo utile fare dei tracciamenti che andavano bene all’inizio dell’epidemia».
Non le sembra che a Vo’ Euganeo e in Veneto abbiano funzionato bene?
«E infatti penso che il professor Crisanti abbia fatto un grande lavoro, agendo subito e con decisione. Quel metodo, doppio tampone e tracciamento, va bene per un piccolo focolaio. Ma se il virus circola da mesi e poi esplode come accaduto in Lombardia, quel metodo rischia di diventare controproducente, a meno di avere a disposizione una organizzazione pazzesca tipo Wuhan».
Sta dicendo che l’attuale sistema basato sui tamponi è sbagliato?
«Niente affatto. Ma sta andando avanti in modo burocratico con delle regole che non tengono conto di quello che sta emergendo dalla letteratura scientifica».
Lei stesso mi ha detto che ci vuole minimo un anno prima che la comunità scientifica e i governi recepiscano i risultati degli studi.
«In questo caso specifico sarebbe meglio accelerare, altrimenti si crea un panico ingiustificato».
Come si spiega che la stragrande maggioranza dei nuovi casi viene registrata solo in una regione?
«C’è stata una enorme quantità di malati, il virus è girato moltissimo, e questi sono i residui di quella diffusione».
Non la preoccupa il fatto che anche ieri siano stati registrati 216 nuovi casi in Lombardia su 333 in tutta Italia?
«No, se sono positivi allo stesso modo di quelli della nostra ricerca, ovvero con una positività ridicolmente inferiore a centomila. Perché non possono contagiare gli altri».
E se invece non lo sono?
«C’è solo un modo per scoprirlo. Bisogna dire quanto Covid-19 c’è nelle nuove positività. E quello che sto chiedendo. Il virus è lo stesso, certo. Ma per ragioni che nessuno conosce, e forse per questo c’è molta difficoltà ad ammetterlo, in quei tamponi ce n’è poco, molto meno di prima. E di questo va tenuto conto».
Sta facendo l’avvocato difensore della Lombardia?
«Non ho alcuna ragione per esserlo. Sia per la mia sensibilità politica che per la mia storia professionale, entrambe ben lontane dai principi alla base della sanità lombarda. Credo di essere conosciuto anche per aver avversato come nessun altro quel modello, basato com’era su libera scelta e mercato. Ma sono anche un medico, ho il dovere di dire le cose come stanno».
Coronavirus, Palù: «Asintomatico il 95% dei positivi. Chiudere tutto? No, basta con l’isteria»- Corriere.it
Coronavirus, il virologo Palù: «Il 95% dei positivi è asintomatico. Chiudere tutto? No, basta con l’isteria»
Il professore emerito di Microbiologia e Virologia all’Università di Padova: «Il numero che conta veramente è quello dei ricoverati in terapia intensiva»
di Adriana Bazzi
23 ottobre 2020
«Confusione»: se si dovesse riassumere, in una parola, la situazione Covid-19 in Italia oggi, questa sarebbe la più indicata, almeno nella testa della gente. Come uscirne? Intanto partiamo dalle impressionanti cifre dei bollettini giornalieri: ieri si parlava di 19.143 «contagi» o, in alternativa, di «casi» oppure di «positivi», tutti intercettati con i famosi tamponi. In crescita esponenziale. Ma che cosa questi termini nascondono in realtà? Lo chiediamo al professor Giorgio Palù, un’autorità indiscussa nel campo della virologia, professore emerito dell’Università di Padova e past-president della Società italiana ed europea di Virologia.
Professor Palù, la gente è sconfortata e non sa più a chi credere. Come rispondere?
«C’è tanto allarmismo. È indubbio che siamo di fronte a una seconda ondata della pandemia, ma la circolazione del virus non si è mai arrestata, anche se, a luglio, i casi sembravano azzerati, complice la bella stagione, l’aria aperta, i raggi ultravioletti che uccidono il virus. Poi c’è stato il ritorno dalle vacanze, la riapertura di tante attività e, soprattutto, il rientro a scuola».
Risultato: i numeri dei «casi» sono in aumento. Come interpretarli correttamente?
«Ecco, parliamo di “casi”, intendendo le persone positive al tampone. Fra questi, il 95 per cento non ha sintomi e quindi non si può definire malato, punto primo. Punto secondo: è certo che queste persone sono state “contagiate”, cioè sono venuti a contatto con il virus, ma non è detto che siano “contagiose”, cioè che possano trasmettere il virus ad altri. Potrebbero farlo se avessero una carica virale alta, ma al momento, con i test a disposizione, non è possibile stabilirlo in tempi utili per evitare i contagi».
Altri motivi per cui certe persone «positive» non sono «contagiose»?
«Perché potrebbero avere una carica virale bassa, perché potrebbero essere portatrici di un ceppo di virus meno virulento oppure perché presentano solo frammenti genetici del virus, rilevabili con il test, ma incapaci di infettare altre persone».
Allora, riassumendo: so che certe persone sono positive al tampone, so che sono asintomatiche, quindi non malate, so, però, che in una certa percentuale di casi (non è possibile stabilire quanto grande) possono contagiare altri. E, quindi, come comportarsi, visto che a Milano, per esempio, si è dichiarato il fallimento della possibilità di tracciare i contatti?
«Ci si dovrebbe attivare nel caso si individuino dei “cluster” (traduzione: raggruppamenti, ndr): quando, cioè, il positivo è venuto a stretto contatto con altre persone in un ambiente di lavoro, a scuola o in famiglia. Allora si dovrebbero fare i tamponi a tutti».
Quindi, conoscere i dati giornalieri, come da bollettini, sui contagi/casi/positivi non è, in definitiva, utile?
«Quello che veramente conta è sapere quante persone arrivano in terapia intensiva: è questo numero che dà la reale dimensione della gravità della situazione. In ogni caso questo virus ha una letalità relativamente bassa, può uccidere, ma non è la peste».
A che cosa attribuisce l’attuale impennata di casi?
«Certamente alla riapertura delle scuole. Il problema non è la scuola in sé, ma sono i trasporti pubblici su cui otto milioni di studenti hanno cominciato a circolare. Tenere aperte le scuole è, però, indispensabile».
Lei è contrario o favorevole a nuovi lockdown?
«Sono contrario come cittadino perché sarebbe un suicidio per la nostra economia; come scienziato perché penalizzerebbe l’educazione dei giovani, che sono il nostro futuro, e come medico perché vorrebbe dire che malati, affetti da altre patologie, specialmente tumori, non avrebbero accesso alle cure. Tutto questo a fronte di una malattia, la Covid-19, che, tutto sommato ha una bassa letalità. Cioè non è così mortale. Dobbiamo porre un freno a questa isteria».
Parliamo adesso di quel 5 per cento di persone positive al tampone e con sintomi. Che fine fanno?
«Chi ha sintomi gravi (polmonite, ndr) viene ricoverato. Ma ci sono anche i “ricoveri sociali”, mi informano i clinici. Persone che hanno disturbi lievi, ma non possono stare a casa perché sono soli o perché possono infettare altre persone in famiglia o perché sono poveri e non sanno dove andare».
Come funziona l’assistenza domiciliare delle persone positive?
«Se ne dovrebbero occupare i medici di famiglia, ma non esistono regole e protocolli che li orientino nella scelta delle terapie. Sono lasciati soli».
COMMENTO BREVE: E bravo Palù, quindi lei sarebbe un grande luminare della medicina. Contro il lockdown perché in fondo è una malattia che ha una 'bassa letalità'. Infatti, dal 1 ottobre ad oggi abbiamo avuto quasi 40.000 morti. Ma poteva andare peggio, eh. I dottori non assistono i malati, e poi ci si lamenta che corrono 'a ricoverarsi' perché 'preda dell'isteria'? E così via.
Questo è il grande scienziato dell'infodemia e che era tra i tre (gli altri Zangrillo e Bassetti) preferiti da Salvini come comitato tecnico scientifico.
Di recente, il grande scienziato di cui sopra, quello ch aveva dato dello zanzarologo a Crisanti, è diventato il NUMERO UNO DI AIFA, grazie alla nomina dalla conferenza Stato-Regioni. Cioé: invece di premiare Crisanti per avere salvato il Veneto dalla 1a ondata, si premia Palù che non ha fatto praticamente NULLA per fermarla. Chiaro o no?
E adesso Palù apre anche agli anticorpi monoclonai.
Monoclonali, Palù apre alla sperimentazione. L'Aifa riscrive la vicenda del "trial mancato", ma finisce per ammettere l'occasione persa - Il Fatto Quotidiano
Monoclonali, Palù apre alla sperimentazione. L’Aifa riscrive la vicenda del “trial mancato”, ma finisce per ammettere l’occasione persa
“Stiamo valutando una sperimentazione nei prossimi giorni”. Sui farmaci a base di anticorpi il neopresidente dell'Agenzia ha impresso la svolta. “Sono un sicuro presidio nel momento in cui non riusciremo a fare il vaccino a tutti". Ma l'ente difende la sua inerzia ricostruendo a suo modo l'occasione lasciata cadere nel nulla di sperimentarli gratis già a novembre. "Mai arrivata proposta di cessione gratuita", ma perché l'Aifa stessa non l'ha più chiesta. "Arrivata solo quella di autorizzazione alla vendita". Ma il ministero della Salute ormai poteva solo comprare il Bamlanivimab. Ecco come sono andate le cose
di Thomas Mackinson | 23 DICEMBRE 2020“L’Aifa ha interesse a sperimentare i monoclonali”. Sui farmaci a base di anticorpi Giorgio Palù ieri ha impresso la svolta all’agenzia che presiede dal 4 dicembre. Dopo le rivelazioni del Fatto ha messo il punto all’ordine del giorno riaprendo la strada che, per ragioni poco chiare, era stata chiusa: “Sono un sicuro presidio nel momento in cui non riusciremo a fare il vaccino a tutti. Stiamo valutando una sperimentazione nei prossimi giorni”. In verità lo sostiene da sempre, ma per riaprire il discorso tocca cancellare la macchia: l’occasione mancata di sperimentare già a novembre 10mila dosi di Bamlanivimab, il farmaco sviluppato da Eli Lilly contro il Covid-19, a beneficio di altrettanti pazienti e a costo zero.
Nicola Magrini, dg dell’Aifa, s’intesta la smentita di una storia che il Fatto ha ricostruito – in forza di documenti e testimonianze dirette – e di cui prima nulla si sapeva. Magrini, che mai ha accettato di parlarne, parla ora di “una generica disponibilità a collaborare” della multinazionale di Indianapolis. Sostiene che l’agenzia non ha ricevuto alcuna proposta di “cessione gratuita delle dosi” bensì una richiesta di autorizzazione alla vendita, non alla sperimentazione. E che in ogni caso: “Non è vero che abbiamo rifiutato l’accesso in Italia”.
Racconta tutt’altro la documentazione in nostro possesso. Tutti i decisori pubblici coinvolti, a partire dallo stesso Magrini, fin dal 7 ottobre erano chiamati a valutare esclusivamente la proposta di un “trial clinico-pragmatico” gratuito che avrebbe garantito al nostro Paese ormai schiacciato dalla seconda ondata l’accesso a una delle poche cure disponibili al mondo contro il virus. Nessun documento di quelli visionati parla di vendita: un’opzione che l’Italia ha valutato solo quando il tergiversare dell’Aifa sulla sperimentazione ha reso impossibile la cessione, perché il 9 novembre il farmaco è stato autorizzato negli Usa ed è entrato in commercio.
“Il 7 ottobre il virologo Guido Silvestri da Atlanta chiamò me”, racconta ora la senatrice M5S Elena Fattori. “Mi parlò della possibilità di far avere all’Italia almeno 10mila dosi di quel medicinale a costo zero”. La senatrice chiama subito il capo segreteria di Speranza, Massimo Paolucci. “Il ministero mi diede immediato riscontro. Da lì in poi la palla passò all’Aifa dove la cosa evidentemente si è arenata, non so perché”. Una versione che coincide con quella del viceministro Pierpaolo Sileri: il giorno stesso, nel giro di 16 minuti, girò la proposta all’Aifa per le opportune valutazioni del caso: a distanza di due mesi e mezzo non ha avuto risposta. L’aspettano anche i senatori M5S della Commissione Sanità: due giorni fa hanno depositato un’interrogazione al ministro Speranza in cui chiedono, alla luce della notizie emerse, cosa intenda fare. Il presidente Palù ha risposto nei fatti, travolgendo resistenze mai chiarite a un trial clinico di monoclonali già in uso all’estero.
Sempre di questo (non di vendita) si parla ancora nella riunione del 29 ottobre tra i vertici mondiali della Lilly, il gruppo regolatorio dell’Aifa, Gianni Rezza per il ministero, Giuseppe Ippolito (Cts e Spallanzani) e lo stesso professor Silvestri che da Atlanta aveva dato impulso all’iniziativa. La conferma definitiva che quello fosse l’oggetto, mai la vendita, arriva proprio da Ippolito: in una lettera al Fatto del 18 dicembre il direttore dello Spallanzani parla appunto di “sperimentazione”, non di offerte di acquisto.
La smentita dell’Aifa gioca però con le parole, usa a sua discolpa i propri atti mancati. Sostiene, ad esempio, di non aver mai ricevuto la proposta di sperimentazione gratuita. E questo è assolutamente vero, ma non l’ha ricevuta per il semplice fatto che al termine della riunione citata l’ha lasciata cadere per palese disinteresse. La multinazionale, contattata dal Fatto nei giorni scorsi, aveva confermato: “L’interlocuzione sul trial clinico gratuito è stata interrotta allora”. Aifa però rimarca d’aver ricevuto la richiesta di autorizzazione alla vendita. Facendo così passare il sospetto che alla fine di questo si trattasse: “In data 20 novembre – si legge – l’azienda Eli Lilly ha presentato all’Aifa una offerta per l’acquisto del farmaco da parte dell’Ssn, consegnando una ipotesi di contratto alla Struttura Commissariale all’emergenza Covid-19 il giorno 25 Novembre”.
Quello che la smentita non dice è che in realtà, persa l’occasione, non poteva accadere altrimenti. Il 9 novembre l’Fda americana autorizza l’uso d’emergenza del Bamlanivimab e da quel giorno, col prezzo fissato in 1200 dollari per le prime 300mila dosi, la casa madre di Indianapolis non può più cederne 10mila gratis a un altro Paese. Tuttavia l’Italia all’improvviso è disposta anche a pagare il farmaco che poteva avere gratis: il 16 novembre il ministero della Salute riporta la multinazionale al tavolo con Arcuri per l’unica opzione rimasta: trattare il prezzo.
L’Aifa infine torna sui limiti regolatori che sono la foglia di fico di tutta la storia. “Gli anticorpi monoclonali – si legge nel comunicato – necessitano di una approvazione europea, mentre l’azienda Eli Lilly ha proposto una procedura di approvazione del farmaco in deroga a tali procedure”. Ricorda poi che Ema ha espresso un giudizio assai cauto sulle possibilità di approvare il Bamlanivimab sulla base dello studio di fase 2 che evidenziava benefici moderati e ha richiesto ulteriori dati a supporto”. Non spiega però perché quei risultati siano bastati agli altri Paesi. Gli Stati Uniti hanno acquistato un milione di dosi, in Canada ne arriveranno altre migliaia dallo stabilimento di Latina. L’Ungheria fa parte dell’Unione dal 2004 e ha autorizzato il farmaco senza aspettare l’Ema. La Germania è sulla stessa scia.
E’ stato chiarito che in Italia si poteva autorizzare senza violare la legge, bensì applicandola: la 648/1996 è stata fatta apposta per autorizzare medicinali innovativi autorizzati in altri Stati, ma non in Italia, e quelli non ancora autorizzati dall’Ema ma in corso di sperimentazione clinica. La legge è sul sito dell’Aifa, per altro, con l’elenco dei farmaci. Nel 2005, ad esempio, Aifa autorizzò il trastuzumab per il trattamento del tumore alla mammella un anno e mezzo prima dell’Ema: ed è un anticorpo monoclonale, proprio come il Bamlanivimab. Adesso, dopo l’inchiesta, la posizione dell’Aifa è cambiata. È una vera fortuna. Potevamo essere i primi d’Europa, potremmo rischiare di non arrivare ultimi. Questa, alla fine, è la storia.
Coronavirus, quando finirà? La lezione (possibile) di un’oscura «influenza russa» - Corriere.it
Articolo lunghissimo. Vale la pena di leggerlo? Assolutamente sì.
Coronavirus, quando finirà? La lezione (possibile) di un’oscura «influenza russa»Chi dovesse chiedere alla scienza la certezza di un oracolo, si sbaglierebbe. Ma in queste ore, mentre le domande sul virus (e la sua fine) si accumulano, è bene capire le origini e il funzionamento dell’epidemiologia. E guardare a quello che potrebbe essere l’unico precedente di una pandemia da coronavirus: scoppiata 130 anni fa
di Sandro Modeo (5-6-20)
Inutile girarci intorno. La domanda è una, pur ramificata in tante sotto-domande: quando Covid-19 uscirà davvero dai nostri corpi e dalle nostre menti — dal nostro paesaggio sociale? Quando sarà possibile (ri) programmare-progettare le nostre vite in scenari che non siano slogati in asincronie e asimmetrie esasperanti (tra nazioni o tra regioni; tra generazioni; tra categorie di ogni ordine e grado)? Quando potremo muoverci con un minimo di riacquista naturalezza, fuori dalla rete di coreografie goffe e incerte tratteggiate per noi dall’impatto del patogeno sulle spiagge, nei ristoranti, negli uffici, nelle scuole, sui campi da calcio, con rintocchi da Nuovo mondo huxleyano?
Com’è noto, la risposta univoca e liberatoria (una data, anche sommaria, che segni un dopo vero, non l’ennesima stazione di questo massacrante «non più-non ancora») non c’è. Ci sono «indicazioni», anche marcate, dovute a feedback più o meno positivi: l’afflosciarsi della curva per contagi e decessi (con alcuni attriti residui, Lombardia in primis) e la minor virulenza non tanto del patogeno (la questione è controversa) quanto della patologia, dovuta al lockdown, al decongestionamento ospedaliero, a (tardive) profilassi di molte RSA…
Ma queste «indicazioni» (che pure sono state sufficienti a sdoganare forme di riapertura auto-organizzata e auto-legittimata, vedi le varie movide) a molti non bastano. Troppe ombre si allungano ancora sul percorso e all’orizzonte: sul breve periodo (gli spettri di recidive e nuovi focolai, come in Corea del Sud) e soprattutto sul lungo: le eventuali nuove ondate nell’autunno-inverno di quest’anno, in stile simil-spagnola (quindi, in teoria, più aggressive); o, peggio ancora, il ripresentarsi di queste ondate su cicli pluriennali, fino al 2024, come indica uno studio-chiave uscito su Science. Fino alla prefigurazione (Washington Post del 27 maggio) che inquadra il Covid-19 in coabitazione con gli umani «per decadi», anche dopo l’eventuale messa a punto e diffusione di un vaccino. Il che — per inciso — non sarebbe necessariamente una «cattiva notizia», per echeggiare il famoso adagio del biologo-Nobel Peter Medawar, che definiva i virus «cattive notizie avvolte in una proteina». Il punto è che questi deficit previsionali non vengono visti come limiti intrinseci al set di scienze che cerca di contenerli, ma come colpe di quelle stesse scienze. O meglio, nello specifico, di quelle branche o discipline direttamente coinvolte in una pandemia: la virologia, colpevole di non saper decifrare con nitidezza cambiamenti di virulenza ovvero letalità del patogeno; l’immunologia, incapace di identificare la durata di immunità dei guariti e di produrre test sierologici efficaci; e — soprattutto — l’epidemiologia, la vera Cenerentola di questi mesi, l’oggetto prediletto dell’irrisione non solo popolar-populista, in quanto la «montagna» del suo apparato metodologico-operativo (la sovrabbondanza di imponenti e impotenti simulazioni algoritmiche) avrebbe prodotto il «topolino» di una profilassi a base di quarantene «medievali», distanziamento sociale, mascherina e lavaggio delle mani. È davvero così? O forse è il momento giusto — in questa dimensione limbica della pandemia — per andare a «vedere le carte» dell’epidemiologia (la sua storia ed evoluzione, la sua filosofia, i suoi stessi metodi)? Nella peggiore delle ipotesi, una simile verifica — su acquisizioni e fallimenti, punti di forza e debolezza — potrebbe portare alle stesse conclusioni del credo scettico, ma almeno con cognizione di causa. Nella migliore, a contemplare paesaggi nuovi o a vedere quelli consueti sotto una luce nuova, magari con qualche sorpresa proprio sulle possibili dinamiche di Covid-19 nei prossimi mesi e anni.
L’anno dei sentieri che si biforcanoUno dei momenti decisivi nell’evolversi dell’epidemiologia è il 1906, quando i sentieri si biforcano come nel giardino del racconto di Borges. A svolta microbiologica appena avvenuta (con la riconduzione delle malattie infettive — grazie a scienziati come Pasteur, Koch, Lister — a specifici agenti patogeni), emergono due posizioni o visioni in parte contrapposte.
Da un lato, quella del medico inglese William Heaton Hamer del Royal College, che vede nelle epidemie uno «schema ciclico» (per esempio le ondate «ogni 18 mesi» del morbillo) ed è il primo a individuare nel numero di suscettibili (contagiabili) una «soglia» sopra o sotto la quale un episodio epidemico può esplodere o implodere. Non solo: nella sua ottica «puramente matematica», Hamer pensa che in una comunità la chiave sia il cosiddetto «principio dell’azione di massa», cioè la densità degli stessi suscettibili moltiplicata per quella degli infettivi; conta solo il loro potenziale contatto/contagio, con guariti e/o immuni sullo sfondo, come fattore non primario nel frenare la propagazione.
Dall’altro, abbiamo il medico scozzese John Brownlee (ospedale di Glasgow), che redige per la Royal Society di Edimburgo un impressionante regesto comparativo su oltre due secoli di patologie «locali» (dalla peste di Londra del 1665 — quella descritta da Defoe — alla scarlattina di Halifax del 1880). Anche lui studia le curve matematiche, adottando in più il metodo statistico del suo maestro Karl Pearson; ma — a differenza di Hamer— è convinto che quelle curve dipendano soprattutto dalle «condizioni del germe», da un «grado di infettività» che lo rende aggressivo in certe fasi (nel «period of energy» o «germinal vitality») e tenue o innocuo in altre, quando si affloscia come «un palloncino sgonfio».
Ora, è vero che il termine «infettività» è usato in molto ambiguo (si tratta della carica vitale? dell’efficienza di trasmissione? di un loro mix?) e che Brownlee esagera nel sostenere l’irrilevanza dell’interazione tra infettivi e suscettibili. Ma l’enfasi posta sull’agente patogeno ha il merito di ricordarci il legame tra la specificità molecolare dello stesso, la sua modalità di trasmissione e le relative implicazioni epidemiologiche e di trattamento «profilattico». È un legame che osserviamo bene nel caso di un agente patogeno batterico come il colera, a lungo combattuto — come nella pandemia all’inizio degli Anni ’30 dell’800 — con severe quarantene, ad esempio quella che abbiamo descritto nella ricostruzione del «caso svedese». Quarantene — a posteriori — totalmente inutili, dato che la geniale ricostruzione medico-investigativa di John Snow nella Londra del 1854 (che individua il fattore di contagio nelle acque fognarie contaminate da escrementi) e l’isolamento dell’agente patogeno da parte di Koch nel 1882 (il vibrione già osservato da Filippo Pacini nel ’53, l’anno prima della scoperta di Snow) ne dimostrano la non-trasmissibilità «da uomo a uomo».
Eppure, il sentiero «biologico» di Brownlee resterà interrotto (o nascosto in una foresta) per lungo tempo, tanto che dobbiamo metterlo in stand-by e ricordarcene più avanti. Quello prevalentemente «matematico» di Hamer, invece, si dilaterà nella via maestra dell’epidemiologia. Con un piccolo paradosso. Gli «antefatti» di quel sentiero sono altrove: gli studi statistici di Bernoulli sul rapporto costi-benefici nel vaccino del vaiolo (poco dopo metà ‘700); o la prima applicazione alle curve epidemiche delle «catene o distribuzioni binomiali» (le stesse che interpretano le serie di lanci di monete o le estrazioni del lotto) da parte del misconosciuto medico russo Petr Dimitrovich En’ko (1889). Ma il primo, lungo e decisivo tratto è scavato da scienziati /medici tutti scozzesi, proprio come Brownlee.
L’origine del «fattore R»Scozzese è infatti il Nobel Ronald Ross, che attraverso i suoi studi rivoluzionari sulla malaria arriva a formulare intorno al 1916 una complessa «teoria degli eventi». Intendendo con «evento» ogni fenomeno in grado di tramettersi da individuo a individuo entro una popolazione, si tratti di pettegolezzi, panico o virus (così come Bernoulli applicava i suoi «calcoli del rischio», oltre che al vaccino del vaiolo, al moto dei fluidi o alle assicurazioni), Ross perfeziona con le sue equazioni differenziali il concetto di «soglia» di Hamer, ribaltando Brownlee e sostenendo che ogni epidemia (colera, influenza, peste…) flette la sua curva non per la «perdita d’infettività del patogeno», ma per la discesa del numero di suscettibili sotto un certo numero.
Scozzesi sono poi il medico William O. Kermack e il biochimico Anderson G. McKendrick: il primo dalla biografia più tormentata (un passaggio nella RAF e la cecità a 26 anni per un’esplosione in viso di soda caustica, che lo costringerà a farsi leggere i testi dagli studenti), il secondo dall’iter più regolare (capo di Kermack al Royal College di Edimburgo, lo stesso di Brownlee). In uno studio-spartiacque del 1927, i due porteranno a un perfezionamento definitivo sia il concetto di «densità di soglia» (il minimum numerico di innesco epidemico in una comunità) sia la dinamica d’implosione, dimostrando come un’epidemia possa finire anche mantenendo un numero di suscettibili, nel momento in cui «scatta un certo meccanismo nel delicato gioco tra infezioni, morti e guarigioni (con immunizzazione)». Nel cercare di decifrare quel meccanismo, formulano il famoso modello-SIR (Suscettibili - Infettivi- guariti o Recovered) e paragonano più in generale un’epidemia a un incendio potenziale, con le equazioni che cercano di leggere la curva come un fuoco che possa «accendersi, restare acceso e alla fine spegnersi». E con un corollario non da poco: quello per cui «piccoli incrementi del tasso di infezione possono causare gravi epidemie»: il primo richiamo, di fatto, su «focolai» da spegnere sul nascere e sulla necessità delle «zone rosse».
Scozzese, infine, è il malariologo George MacDonald del Ross Institute, che nel 1934-35 si trova a Ceylon per affrontare un’atipica esplosione di malaria (un terzo della popolazione contagiata e 80.000 morti): atipica perché la patologia — di casa nell’isola — si è sempre manifestata in piccoli focolai periodici, soprattutto nei bambini, immunologicamente più esposti. Vent’anni dopo, rientrato a Londra, MacDonald cercherà di risolvere l’enigma incrociando decine di variabili sugli umani e sui vettori (le zanzare) per scovare quei minimi, ma decisivi cambiamenti «nei fattori fondamentali di trasmissione»; ovvero quei «piccoli eventi dalle grandi conseguenze» rimarcati da Kermack-McKendrick. Riuscirà a trovarli: un aumento di densità di Anopheles cinque volte il normale (conseguenza di una lunga siccità) e la loro accresciuta longevità, che permette di pungere-infettarsi-ripungere. Ma, soprattutto, sarà proprio quello studio a fargli trovare il parametro-chiave delle sue ricerche: il «numero riproduttivo di base» ovvero il numero di infezioni che coinvolgono una comunità come conseguenza della presenza di un singolo caso primario non immune». Si tratta dell’ormai arcinoto R (dove R sta per reprodution rate, tasso di riproduzione, da non confondere con l’R del SIR, recovered=guarito), scandito dalla sua algebra tirannica (qui raccontata da Paolo Giordano): se è < a 1,0, l’epidemia si insabbia; se è di poco >, si espande; se è di molto >, esplode.
Con MacDonald, l’epidemiologia si avvicina al suo Graal matematico; per arrivarci, la leadership della disciplina dovrà passare dalla Scozia all’Australia.
Il serpente nell’erba matematicaPoco più di un mese fa, il 28 aprile, è scomparso a 84 anni — dopo una lunga convivenza con l’Alzheimer — Robert May. È un altro paradosso: May esce di scena in un sostanziale silenzio mediatico proprio nel momento in cui il pianeta sta lottando contra la prima pandemia del millennio anche — se non soprattutto — grazie a certe sue intuizioni/acquisizioni.
Origini nordirlandesi da parte di padre e scozzesi (manco a dirlo) da parte di madre, May è australiano come due altre figure-chiave nello studio dei patogeni: Frank Mcfarlane Burnet (Nobel per gli studi sulla selezione clonale con cui i linfociti rispondono agli «invasori») e Frank Fenner, virologo autore di un capitale studio sulla mixomatosi, che troveremo più avanti. Figlio di un brillante penalista, May si laurea in fisica teorica a Sydney per poi studiare matematica applicata a Harvard, disciplina che approfondisce (dal ’71) a Princeton, dove comincia a dialogare con biologi e ecologi sulla dinamica delle popolazioni, in particolare col geniale Robert MacArthur, che morirà prematuramente lasciando proprio a May la cattedra di zoologia. In quel contesto, May torna a una (alla) sua antica ossessione, già «scolpita» sul retro di una lavagna in un corridoio di Sydney come «problema per gli studenti»: «che cosa cavolo succede quando lambda diventa maggiore del punto di accumulazione?». Traduzione: cosa succede quado il tasso di incremento di una popolazione, poniamo di pesci — la sua tendenza ad aumentare e poi a esplodere — supera un certo punto critico?
May nota infatti che al variare del parametro di crescita, il «sistema» muta (si deforma) in modo inspiegabile. A parametro basso, lo stato è stazionario: alzandolo, comincia a oscillare tra due e poi quattro valori; alzandolo ancora, diventa imprevedibile e caotico, introducendo «un’inattesa irregolarità». Perché quel caos da una semplicissima equazione deterministica, la cosiddetta «equazione logistica delle differenze finite»? Trasferendo il problema su un grafico — secondo il suggerimento di Edward Lorenz, lo scopritore dell’«effetto farfalla» e uno dei padri della «teoria del caos» — May si imbatte in una sorpresa ulteriore: oltre il «punto di accumulazione» — quando la periodicità cede al caos — si aprono comunque delle «finestre di regolarità», «cicli stabili» , col modello di variazione della popolazione che si ripete per lo più in periodi dispari (tipo ogni 3 o 7 anni). È quello che May chiamerà «il serpente nell’erba matematica», dove l’erba sta a indicare il «rumore» entro cui si isola una figura riconoscibile. Tutti quegli studi torneranno utili quando May incontrerà nel 1975 a York — durante un convegno sulla «stabilità ecologica» — Roy M. Anderson, allora responsabile di «epidemiologia delle malattie infettive» all’Imperial College di Londra (passerà poi a Oxford). È un fortunato crossing over: May — fisico-matematico con la passione biologico-ecologica — si imbatte in un parassitologo con vocazione matematica: tanto che i due — da lì in poi inseparabili per un ventennio — porteranno l’epidemiologia all’ultimo «salto», con decine di contributi che andranno a confluire nel monumentale Infectious Diseases of Humansdel 1991.
Le tante novità introdotte da Anderson-May sono riconducibili a due, decisive. In tutti i modelli epidemiologici che abbiamo visto (Hamer 1906; Ross 1916; Kermack-McKendrick 1927; MacDonald 1956) la popolazione-ospite è ritenuta stabile, costante: se si diffonde un’epidemia di morbillo in una città di 200.000 abitanti, l’evolversi dello schema SIR (suscettibili, infettivi, guariti) non muterà quel numero, con un’ipotetica compensazione, per esempio tra morti e nascite. In Anderson-May, quel numero diventa invece una «variabile dinamica»: nel corso di un’epidemia troppi fattori lo alterano: le vittime stesse; una possibile riduzione della natalità; le emergenze sanitarie (gli «ospedali sovraffollati», proprio come con Covid- 19), e molto altro. Tra quei fattori di alterazione — chiave nella chiave — viene considerata per la prima volta anche la «coevoluzione» tra ospite e parassita, base per le prime 2 variabili (su 5) del loro modello finale: il «tasso di trasmissione» del patogeno e «il tempo di recupero degli ospiti che non soccombono all’infezione». Intrecciandosi alle altre 3 (mortalità legata allo specifico del patogeno, mortalità legata ad altre cause, consistenza — cangiante— della popolazione ospite) vanno a comporre il citato Graal epidemiologico, la cui sintesi matematica e simbolica è l’aggiornamento del «numero riproduttivo di base» di Mac Donald mutato da R in R0, ormai noto come una rockstar.
Ma la metafora del Graal, perfetta per la mistica, è evanescente nella scienza, in cui ogni teoria è falsificabile, o almeno passibile di revisioni e/o integrazioni.
La collina dei conigliUna delle acquisizioni più notevoli nella visione di Anderson-May è la smentita della «sciocchezza» secondo cui «un parassita si evolve fino a diventare innocuo per il suo ospite».
Per consolidarla, i due mostrano la perfetta aderenza del loro modello epidemiologico alla «smentita delle smentite» sul campo, il caso straziante del mixomavirus nei conigli, oggetto di uno studio ormai classico del citato virologo Frank Fenner.
In breve: nel 1859 (anno di uscita dell’Origine delle specie di Darwin) il proprietario terriero australiano Thomas Austin importa nella sua immane tenuta 24 conigli selvatici europei, che in un contesto ecologico favorevole si moltiplicano all’impazzata in tutto il continente, arrivando in meno di un secolo — nonostante il «contrappeso» della caccia — a ben 600 milioni di esemplari, via via più nocivi nel loro competere (per erba e acqua) coi conigli locali e il bestiame. Il governo autorizza allora l’importazione dal Brasile di un poxvirus, il mixoma, che nei conigli sudamericani produce solo piccole ulcere, ma che impatta su quelli europei/australiani — cioè su un’altra specie e in un altro contesto ecologico — con una letalità iniziale del 99,6%, producendo ulcere estese e la morte in 2 settimane.
Seguendo per 30 anni (1950-1980) l’evolversi del virus e della malattia, Fenner scopre come nel tempo si diversifichino numerosi ceppi, raggruppati in 5 principali, e come la selezione naturale estingua o quasi l’I e il II (più aggressivi) e il IV e il V (più innocui), favorendo (in ben due terzi dei casi) il III, ovvero un ceppo sempre ad alta letalità (67%), ma più efficiente degli altri nel rapporto letalità-trasmissibilità. E cioè: dato che il mixoma è un virus vettoriale (con la zanzara che lo preleva dalle ulcere), il ceppo più efficiente è quello che produce nei conigli lesioni abbastanza estese e abbastanza durature da consentire il prelievo più consistente per il maggior tempo possibile. I ceppi I e II uccidono troppo in fretta; il IV e il V fanno guarire troppo in fretta le lesioni; «solo i virus del ceppo III» — scrive Fenner — «rimanevano altamente infetti per tutto il periodo di sopravvivenza negli animali desinati a morire e per un tempo più lungo della media in quelli destinati a guarire»:
Prima morale: nella competizione tra ceppi virali viene sempre selezionato quello col livello di virulenza che massimizza la trasmissione (e quindi la riproduzione). Che quel livello risulti — per noi — più o meno aggressivo o letale è irrilevante nella neutralità del processo evolutivo.
Seconda morale — riassunta da Quammen in Spillover —: la regola aurea per un virus di successo non è quindi «non uccidere il tuo ospite», ma «non tagliare i ponti prima di averli attraversati». A cui va aggiunta una postilla non trascurabile.
Come non c’è un’evoluzione verso la «benignità», non c’è — tra virus e umani— nemmeno l’approdo a forme di simbiosi o mutualismo (come succede invece con i batteri, vedi quelli della nostra flora intestinale). I virologi parlano, semmai, di «armistizio», legato a diversi fattori, tra cui i mutamenti contestuali (ecologici) o la durata dell’immunità.
Anticipata in uno studio pionieristico dallo zoologo Gordon Ball (nel lontano ’43), la smentita di quell’assunto è uno dei tratti-chiave anche di un libro-spartiacque del biologo evoluzionista americano Paul Ewald, Evolution of Infectious Disease (Oxford, 1994). È un testo che ha il merito di provare a integrare nell’epidemiologia il pensiero evoluzionistico e quegli aspetti «qualitativi» delle scienze biologiche (genetica e ora genomica, immunologia, zoologia) trattati per lungo tempo come semplici variabili matematico-statistiche, prettamente quantitative.
Da Bernoulli a Ross e persino alle «teorie del caos» che hanno ispirato il lavoro di May, le «curve epidemiologiche» sono state indagate attraverso quella che si definisce in gergo «indifferenza al substrato», cioè a prescindere dalla materia (organica o no), dalle proprietà e dalle dinamiche degli oggetti in questione: cicli economici o tornadi, dicerie o — appunto — sciami virali. Invece i virus andrebbero indagati — anche sul piano epidemiologico — non solo nella loro specificità rispetto ad altri oggetti, ma anche rispetto ad altri patogeni (funghi o batteri) e nella loro unicità molecolare (genetico-genomica, di tipologia di trasmissione, di relazione col sistema immunitario dell’ospite, e così via) a livello di specie e di ceppi, che ne determinano il «comportamento» al punto da indirizzare le valutazioni predittive e le relative profilassi. Come abbiamo già visto per le «inutili» quarantene applicate a un patogeno (in quel caso batterico) non trasmissibile da uomo a uomo come il colera. È il riaffiorare dalla foresta del sentiero «biologico» avviato — pur nella sua ingenuità — da più di un secolo fa da John Brownlee. Un sentiero che in tutte le sue branche (virologia, immunologia, zoologia, genetica-genomica) va ormai definitivamente ricongiungendosi a quello matematico-statistico, che pure sta acquisendo (si legga L’algoritmo e l’oracolo di Alessandro Vespignani e Rosita Rijtano) straordinari strumenti di calcolo-computazione, e ulteriori ne acquisirà coi computer quantistici.
Sentieri che (ri)convergono: Covid 19 dalla «spagnola» alla «russa»Tutti vorremmo sapere.
Se davvero il patogeno stia esaurendo la sua spinta, secondo l’ingenuo dettato di Brownlee (che qualche clinico o virologo sembra — troppo disinvoltamente — assecondare); se almeno — in coerenza coi passaggi appena svolti — la selezione stia favorendo ceppi più funzionali alla trasmissione ma meno virulenti (argomento, al momento, a dir poco controverso); se infine — come si accennava in apertura —, simili mutazioni caratterizzeranno eventuali nuove «ondate» autunnali- invernali o negli anni a venire.
Alla ricercata disperata di «invarianze» epidemiologiche, fino adesso è stata evocata soprattutto la «spagnola», con esiti sfocati e frustranti per vari motivi, a partire dallo iato che separa un ortomyxovirus influenzale (H1N1) da un betacoronavirus come Sars-CoV-2.
Non a caso il citato studio di Science (14 aprile; revisione 22 maggio) svolge la sua proiezione sull’andamento di Sars-CoV-2 prendendo come modelli — per maggiore prossimità molecolare — proprio due betacorovirus umani «del raffreddore»: HCoV-HKU1 e — soprattutto --HCoV-OC 43. Quel «soprattutto» è legato a un suo possibile risvolto virologico-evoluzionistico poco noto, che potrebbe rivelarsi di un certo peso.
A rigore, non sono infatti conosciuti precedenti pandemici di coronavirus: gli unici ad aver solo «abbozzato» un outbreak in quella direzione (subito troncato) sono stati, com’è noto, Sars-CoV (2003-04: il virus «della Sars») e Mers-CoV (2012). Eppure, nel 2005 — nel corso del suo PhD sui coronavirus, uno dei tanti sull’onda dei sequenziamenti genici di Sars-CoV — la biologa belga Leen Vijgen studia coi colleghi proprio il virus umano di OC43, scoprendone le similarità con quello bovino (BCoV); e risalendo lungo l’albero comune — attraverso i calcoli dei tassi di mutazione che diano conto delle divergenze genetiche — trova il loro primo «antenato comune» intorno al 1890, anno del probabile spillover («salto di specie») dalla mucca all’uomo.
Si dà il caso — ecco il punto — che il 1890 (in realtà l’’89) sia l’anno d’esordio di una pandemia durata fino al ’95 e denominata «influenza russa» in quanto a lungo ricondotta a sottotipi di influenza A (H2N2 o H3N8), ma senza mai trovare conferme definitive; e che diversi studiosi riconducono invece ora proprio a HCoV-OC43, eleggendola a prima pandemia da coronavirus.
Anche qui — sia chiaro — siamo ancora nella teoria (manca la «pistola fumante»). Eppure, fatte salve le specificità geo-dinamiche (l’innesco a Bukhara nel maggio ’89 e l’approdo a San Pietroburgo tra ottobre e novembre prima di irradiarsi in Europa e in America) e quelle «storico-vettoriali» (il contagio attraverso la neonata rete ferroviaria), la diversa distribuzione dei decessi (tra 270 e 360.000 del milione complessivo in Europa, a fronte dei 13.000 in Usa), numerose — e a vari livelli — sono le analogie con Covid-19: la cadenza delle ondate (con 5 settimane tra il paziente 1 e il picco); il politropismo virale che coinvolge anche il sistema nervoso, con perdita di gusto e olfatto; la prevalenza, alla lunga, di vittime anziane, specie per complicanze cardiovascolari-renali (a differenza della «spagnola», che colpirà — specie nella seconda ondata — giovani maschi tra 18 e i 30 anni); la pressione sanitaria nelle fasi di picco (vedi, trai tanti esempi nelle capitali europee del tempo, le «baracche» nei cortili degli ospedali francesi). E non dissimile, a ben guardare (anche se condiviso con molte altre epidemie) è il passaggio zoonotico, coi pipistrelli dello Yunnan sostituiti dal bestiame afflitto da pleuropolmoniti in tutto il mondo, e i molti abbattimenti — tra 1870 e 1890 — che espongono allevatori e contadini al contatto con le secrezioni respiratorie.
Se la speculazione fosse esatta, se ne potrebbe cavare una proiezione virologico-epidemiologica favorevole, dato che HCoV-OC43 è oggi (o meglio: al momento) un «banale» virus del raffreddore (con le virgolette a indicare come anche in quella veste rappresenti, per anziani e immunodepressi, comunque una complicanza); nel senso che anche Sars-CoV- 2 — oltre a potersi inabissare come Sars-CoV — potrebbe evolvere, cioè mutare, in quella direzione (come potrebbe diventare, beninteso, più aggressivo).
Nella cornice di queste possibilità, lo studio di Science (esempio tangibile dell’attuale complessità e finezza epidemiologica nell’intrecciare modelli matematico-statistici post-Anderson-May — ne esistono a decine —, scienze biologiche e scienze umane, utili a capire i comportamenti sociali e le loro conseguenze) può dare diverse indicazioni.
In generale, sulla ciclicità: modulandola soprattutto proprio su HCoV-OC43, disegna possibili recidive fino al 2025, con cadenza non dissimile, guarda caso, a quella dell’influenza (che pure Science non cita, limitandosi a trattare OC43 come virus «da raffreddore»). Nel particolare — per cercare di avvicinane durata e intensità — affina un quadro con cui abbiamo familiarizzato.
Dando per acquisite asincronie geografiche (estati e inverni nei vari emisferi) e incidenze climatiche (i possibili picchi negli autunni-inverni), individua le variabili principali sul piano dell’immunità, da valutare (con test sierologici affidabili) sia per estensione nella popolazione che per durata individuale: fattori ambivalenti, in quanto determinanti per diradare-perimetrare i lockdown, ma — se troppo accentuati — a rischio di compromettere la messa a punto del vaccino e quindi la prevenzione di recidive annuali (come per l’influenza): senza dimenticare possibili immunità incrociate (immunità a altri coronavirus «del raffreddore», proprio come OC43 che la estendano a Sars-CoV-2) o la sovrapposizione di eventuali recidive di Covid-19 con l’influenza stagionale.
Altre variabili sono date dal tracciamento, informatico e/o manuale (integrato eventualmente dai tamponi): anche questo un fattore-chiave nel poter diradare- allentare i lockdown, ma la cui scarsa estensione o inefficienza obbliga alla strategia alternativa di potenziare o almeno monitorare i reparti di terapia intensiva, al fine di prevenire i sovraccarichi già visti.
L’algoritmo e l’oracoloQuello appena scorso è un quadro previsionale — non bisogna dimenticarlo — che sconta due condizionamenti di fondo: il fatto che l’indagine epidemiologica sui coronavirus non abbia precedenti nella metrica degli «intervalli seriali» (che non esistano cicli indicativi come invece per l’influenza, tranne — eventualmente — la pandemia «russa» riconducibile a HCoV-OC43); e la dipendenza di ogni proiezione epidemiologica dai feedback resi via via dall’evolvere dell’epidemia-pandemia: un continuo aggiornamento-ridisegnamento (beninteso non esente da errori; vedi i calcoli di Neil Ferguson dell’Imperial College) scambiato da parte dell’opinione pubblica per incertezza o contraddittorietà, e magari accostata alle «dissonanze cognitive» prodotte dal narcisismo incrociato di certi virologi o infettivologi.
E qui veniamo al nodo decisivo. Quella stessa parte di opinione pubblica — accentuando per l’epidemiologia il pregiudizio e la sbrigatività nutriti per la scienza in genere — dà per scontato (o ridimensiona come «scoperta dell’acqua calda») acquisizioni e procedure che scontate non sono per nulla, lamentando invece (con un mix di fastidio e sarcasmo) l’assenza di certezze e soluzioni sui tanti «fronti aperti» di un oggetto o un processo indagato (in una pandemia, ma non solo).
Prendiamo le «banalità profilattiche» della Fase-1 di cui si diceva in apertura («il topolino» prodotto dalla montagna degli algoritmi epidemiologici). È vero, la quarantena è una pratica «medievale» (nasce a Dubrovnik nel 1377, nella coda della Morte Nera veneziana); ma ora sappiamo quando applicarla e quando no (vedi, di nuovo, il colera) e in che termini di durata e estensione in rapporto all’evolversi di un’epidemia. Lo stesso vale per la «distanza di sicurezza»: ce n’è traccia intuitiva già nell’Antico testamento (Levitico), come antidoto alla lebbra; ma è solo nel 1930 che un giovane ricercatore di Harvard, William Wells, stabilisce in «sei piedi» la distanza anti-contagio per i droplet di tbc; e se in questi mesi aggiornamenti continui l’hanno modulata su Covid-19 (secondo le informazioni che arrivavano su modalità di contagio e carica virale) è stato per aumentare la nostra sicurezza. Persino una protezione «elementare» come la mascherina (riconducibile alle grevi strutture a becco dei «medici della peste» secenteschi) appare nella sua modernità per forma e materiali solo nel 1897 (sul volto del chirurgo francese Paul Berger), per estendersi a uso anti-contagio nel 1911 durante la peste polmonare cinese (nel design di Wu Lien-teh del Chinese Imperial College, poi adottato durante la spagnola). Quanto al lavaggio delle mani, anche i meno avvertiti dovrebbero conoscere la storia sublime e tragica di Ignác Semmelweiss, medico ungherese che — pur tra osteggiamenti «baronali» che lo porteranno al manicomio — riesce a far adottare quella profilassi a medici e studenti di ostetricia, salvando migliaia di vite dalla febbre puerperale. Non a caso, Cèline gli dedicherà la tesi di laurea.
E a cornice di tutto questo, tutt’altro che «scontata» è anche la scelta pro o anti-quarantenista, che in altro articolo abbiamo ricondotto anche all’identità politico-economica e storico-antropologica di ogni Paese. Non era scontato, cioè — davanti alla «coperta corta» del dilemma «health or wealth», salute o economia — «chiudere» o tentare vie più arrischiate come quella della Svezia. Può darsi che il lockdown italiano (del Paese — non scordiamolo - che ha fatto da avamposto occidentale alla pandemia) sia stato eccessivo e «tirannico». Ma nel dubbio, sarà forse utile rileggersi una «microstoria» esemplare della spagnola in America: la chiusura di Saint Louis — sotto la guida di un medico geniale e avveduto come Max C. Starkloff — versus l’«apertura totale» di Philadelphia. Perché è vero che — oltre a subire minori danni economici — alla seconda ondata Philadelphia avrà un po’ di morti meno della città del Missouri (dovuti a una sorta di immunità di gregge); ma l’ecatombe della prima — a fronte del numero basso di decessi dovuti alla strategia di Starkloff — chiuderà il saldo delle vite risparmiate nettamente a favore di Saint Louis.
Ogni critica alla scienza, ai suoi errori, alle sue ambiguità, ai suoi deficit di chiarezza — è persino umiliante ricordarlo — non è solo auspicabile, ma necessaria, specie in una democrazia non vuotamente formale. Ma perché quella critica sia tale occorre un’opinione pubblica informata, all’altezza del compito. Chi invece sbeffeggia gli algoritmi pretendendo ciò che non possono offrire (l’infallibilità dell’oracolo) è meglio guardi altrove; dalla scienza non potrà trovare risposte che lo soddisfino. Non è necessario scomodare Dio; basterà rivolgersi a un Pappalardo qualsiasi.