21-1-21:
E chi l'avrebbe mai detto? Appena danno notizia di qualche morto sospetto con vaccini coviddi... ecco la smentita. A sprezzo del ridicolo, con ogni evidenza.
Covid, caso Norvegia. L'agenzia del farmaco: "Non c'è prova di collegamento tra anziani malati morti e vaccino" - Il Fatto Quotidiano
Covid, caso Norvegia. L’agenzia del farmaco: “Non c’è prova di collegamento tra anziani malati morti e vaccino”
Era stata l'Agenzia norvegese del farmaco a segnalare il possibile rischio che gli effetti comuni del vaccino potessero aver influito sui decessi di persone tutte over 75 e già con gravi patologie
18 GENNAIO 2021
Germania, 7 infermieri rifiutano di farsi inoculare il vaccino anti-Covid: licenziati
Il caso Norvegia non era un caso. O meglio si è definitivamente chiarito che non c’è nessun nesso tra il vaccino e la morte di 23 anziani malati, in alcuni anche terminali.
Le autorità sanitarie norvegesi fanno sapere che non ci sono prove di un collegamento diretto. Era stata l’Agenzia norvegese del farmaco a segnalare il possibile rischio che gli effetti comuni del vaccino potessero aver influito sui decessi di persone tutte over 75 e già con gravi patologie.
Coronavirus, da oggi la Francia vaccina gli over 75. In California sospeso lotto di Moderna: “Reazioni allergiche gravi”
L’agenzia Bloomberg, che per prima aveva segnalato l’alert norvegese, riporta la dichiarazione del medical director dell’agenzia: “Chiaramente, Covid-19 è molto più pericoloso per la maggior parte dei pazienti della vaccinazione. Non siamo allarmati”. Fino a venerdì, la Norvegia, come gli altri paesi, aveva utilizzato solo il vaccino fornito da Pfizer/Biontech che avevano fatto sapere che stavano lavorando con le autorità di Oslo per indagare su eventuali correlazioni.
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Intanto la Norvegia alleggerirà alcune delle restrizioni anti Covid dopo che le misure aggiuntive imposte due settimane fa hanno ottenuto gli effetti previsti come fa sapere la premier Erna Solberg parlando al parlamento, citata dal Guardian. “Abbiamo ancora il controllo sulle infezioni, ma la situazione può cambiare rapidamente”.
Emilio M.
2 settimane fa
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Io sono a favore dei vaccini, ma ci vogliono anni di ricerche per stabilire gli effetti collaterali di un farmaco, invece nel caso del vaccino anti-covid le indagini comprensive di verità assolute si fanno in 3 giorni.
Bari
2 settimane fa
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"Non ci sono prove di nesso diretto" non è una espressione tranquillizzante. E poi come le hanno cercate queste prove? In due tre giorni?
ginoferrun↪ Bari
una settimana fa
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Forse sono stati quelli di CSI Miami. Loro in 20 minuti riescono a trovare il DNA del colpevole da noi ai RIS ci vogliono settimane.
Manuelo
2 settimane fa
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Invece le persone di 82 anni con più patologie in corso muoiono certamente a causa del covid. Questa superficialità non fa che alimentare i miei dubbi sull'opportunità di vaccinarsi o meno.
Odio citare quei fighetti di Wired, ma quest'articolo è interessante nondimeno:
Chi rischia di soffrire di long Covid? - Wired
di Anna Lisa Bonfranceschi
16 JAN, 2021
Un grosso studio su Lancet prova a fotografare le conseguenze dell'infezione. Perché dobbiamo ancora studiare agli effetti a lungo termine della malattia
Poco più di un anno. Da tanto conosciamo il coronavirus e l’emergenza che ha portato ovunque. Tra i primi temi legati allo studio degli effetti di questo virus sconosciuto è emerso abbastanza precocemente quello sulle conseguenze: cosa accade, cosa rimane, dopo la guarigione o l’uscita dall’ospedale? Perché a volte, purtroppo, non finisce tutto con la guarigione o le dimissioni. A tornare sul tema di quello che è stato ribattezzato come long Covid, – una sindrome associata a Sars-CoV-2 con sfumature e intensità diverse – è stata in questi giorni la rivista Lancet, che ha provato a fotografare l’estensione del fenomeno, in quello presentato come lo studio più ampio e con il più duraturo follow-up sul tema (circa 6 mesi, su 1700 persone) per gli adulti con Covid-19 dimessi dagli ospedali. Il risultato? Il 76% riferisce almeno un sintomo durante il follow-up: fatica, debolezza muscolare, difficoltà nel dormire, perdita dei capelli, disturbi dell’olfatto e del gusto, palpitazioni, dolori alla articolazioni, perdita dell’appetito, vertigini. Il 23% riportava ansia e depressione nei mesi a seguire.
Long Covid, chi ne è colpito
La lista dei sintomi associati agli strascichi del Covid non sorprende. Di report sulla sindrome del long Covid se ne sono accumulati diversi negli ultimi mesi, mostrando che alcuni di quelli che caratterizzano la malattia continuavano a essere riferiti anche dopo la guarigione. E non sembrano apparentemente risparmiare completamente nessuna categoria: stanchezza, affanno, sono stati riferiti, abbastanza comunemente, anche tra persone giovani e senza fattori rischio. E anche tra chi ha avuto solo sintomi lievi sono stati segnalati problemi che si sono protratti nel tempo, come quella condizione di confusione, difficoltà di concentrazione soprannominata nebbia mentale, sintomi cognitivi secondo alcuni ricollegabili alla capacità del virus di penetrare nel cervello.
La dimensione del fenomeno
Forse a sorprendere di più dai risultati dello studio su Lancet è la dimensione del fenomeno: circa tre quarti delle persone che hanno avuto Covid – e che sono state in ospedale, e quindi realisticamente tra i casi di infezioni più gravi – non sta del tutto bene a distanza di mesi. La fase acuta è seguita da uno strascico di sintomi che riguarda tante persone: la convalescenza è lunga. E in una percentuale considerevole di casi, dal 20 al 50% circa, almeno secondo i dati raccolti dallo studio, si osservano anomalie a livello polmonare (come osservato già in passato per le persone che avevano avuto la Sars), soprattutto per i casi più gravi di malattia, quelli anche più colpiti dagli strascichi. Ma sono state osservate anche persistenti disfunzioni renali, scrivono gli autori, anche in persone che durante la fase acuta non presentavano problemi (sebbene questo dato in particolare vada preso con cautela, nota un commento a firma italiana in accompagnamento al paper).
Ambulatori e linee guida per Long Covid
“Un follow-up continuo dei pazienti con Covid-19 dimessi è necessario e fondamentale – si legge nel paper – non solo per comprendere l’associazione tra le condizioni extrapolmonari e l’infezione da Sars-Cov-2, ma anche per cercare di ridurre la morbidità e la mortalità con una efficiente prevenzione”. Accanto a questo, sottolineano gli autori, prima ancora sono necessari studi di follow-up più estesi, per comprendere tutte le manifestazioni legate a Covid-19. E per comprendere anche se esistono delle caratteristiche, al di là della severità della malattia, che possono indicare chi sono i soggetti più a rischio e per cosa, su cui concentrare in modo particolare gli interventi di assistenza post-Covid. Alcuni indizi, in tal senso, suggeriscono che l’età, un indice di massa corporea elevato e l’essere donna aumentino il rischio di soffrire di long Covid.
Anche se infatti sono ormai mesi che si parla di long Covid si tratta ancora di un quadro sfumato quello che abbiamo sulla convalescenza dal virus. Non potrebbe essere altrimenti, visto che anche quello che sappiamo sul virus è un bagaglio di conoscenze limitato al tempo in cui conosciamo il virus.
Se oggi, ancora in piena emergenza pandemica e con le campagne vaccinali appena avviate, può sembrare prematuro pensare alla prevenzione post-Covid, la stessa dimensione del fenomeno, unita al carico della malattia, suggerisce che probabilmente non lo è affatto. Tanto che, come ricordano Monica Cortinovis, Norberto Perico e Giuseppe Remuzzi dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri Irccs su Lancet sono già nati ambulatori presso gli ospedali per seguire i pazienti che hanno avuto Covid-19, che parallelamente a servizio di assistenza clinica aiuteranno proprio a definire meglio il quadro ancora sfuggente delle sequele dell’infezione da coronavirus, privilegiando un approccio multidisciplinare. Aiutando a comprendere anche i fattori, comprese le terapie, che possono influenzare le conseguenze sul lungo termine della malattia.
Un’impresa non facile, che dovrà anche cercare di districare tutti i possibili effetti dovuti al virus in sé e a tutto quello che la pandemia ha comportato a livello sociale, scrive in proposito Frances Williams del King College of London su The Conversation: “È chiaro che i sintomi a lungo termine associati al Covid-19 sono comuni e che la ricerca sulle cause e sui trattamenti per long Covid probabilmente dovrà continuare per molto tempo dopo che l’epidemia si sarà placata”.
Un invito a non dimenticare gli effetti a lungo termine del Covid-19 è arrivato nelle scorse ore proprio da alcuni degli stessi pazienti colpiti dalle conseguenze della malattia. È quello di alcuni rappresentati dell’organizzazione LongCovidSos, nel Regno Unito, dove nelle scorse settimane il National Institute for Health and Care Excellence (Nice) ha pubblicato le linee guida per la gestione clinica dle Long Covid (non senza sollevare critiche). Dalle pagine dei blog del Bmj, gli esponenti di LongCovidSos si sono rivolti al primo ministro chiedendo di tenere in considerazione gli effetti a lungo termine della malattia nell’agenda politica, in vista di un futuro rilassamento delle restrizioni, sull’onda dell’entusiasmo per l’avvio delle campagne vaccinali, malgrado l’enorme peso dell’infezione ora nel Regno Unito.
Covid-19, che cos'è la "nebbia mentale" che potrebbe colpire un guarito su venti - Wired
di Viola Rita
19 NOV, 2020
L'hanno chiamata "nebbia mentale" e potrebbe colpire un paziente su 20 guarito dal Covid, anche per settimane o mesi dopo l'infezione. I sintomi vanno da mancanza di attenzione e concentrazione a ridotta memoria a breve termine. Cosa sappiamo
Il mal di testa è riportato in tutte e 6 le forme di Covid-19 individuate dagli autori (foto: elenaleonova via Getty Images)Le ricerche sugli strascichi del coronavirus e sui sintomi e disturbi che permangono per settimane o mesi dopo la guarigione – il cosiddetto long Covid – si vanno ormai accumulando. Oggi all’attenzione di vari gruppi di ricerca c’è un nuovo problema, definito dai media nei giorni scorsi come brain fog o nebbia mentale, che colpirebbe alcuni pazienti che hanno avuto il Covid-19 anche lieve. Stando a un ampio campione di dati, tratterebbe di 1 persona su 20, di età non per forza avanzata, ma spesso anche giovani. Confusione, mancanza di concentrazione, difficoltà di attenzione e di memoria sarebbero alcuni dei sintomi che persistono per settimane. Il problema è emerso in tempi molto recenti e non ci sono ancora studi ampi e strutturati, ma già alcuni gruppi di ricerca in varie parti del mondo hanno raccolto qualche prova. Ecco cosa sappiamo.
Memoria e concentrazioneSappiamo che il Covid-19 può colpire il cervello in maniera anche molto grave, anche con ictus e encefaliti. Ma l’infezione può causare anche altri manifestazioni neurologiche, più lievi, come cefalea e perdita di olfatto e gusto, che possono persistere. Ma possono insorgere anche sintomi psicologici e cognitivi. Ci sono testimonianze di pazienti guariti che non ricordano il contenuto di conversazioni appena avute o cosa è successo negli ultimi giorni, documenta un articolo sul New York Times. “È un po’ come se avessi la demenza”, racconta una paziente di 53 anni nel testo dell’articolo sul Nyt. C’è poi chi prova confusione, chi non riesce a concentrarsi, chi non trova le parole. Sono disturbi che possono allarmare ma bisogna sottolineare che il problema probabilmente è transitorio e che non solo l’infezione da coronavirus Sars-Cov-2 può causare problemi cognitivi temporanei di questo genere.
Nebbia mentale, da dove viene la stimaUn’indagine condotta Massachusetts General Hospital, Harvard Medical School, e del King’s College London ha analizzato i dati, raccolti tramite una app, di quasi 4 milioni di persone. Dai risultati emerge che quasi una persona su 20 continua ad avere sintomi che rientrano nella definizione di long Covid, fra cui appunto “nebbia mentale”, a distanza di 8 settimane dopo l’infezione.
Gli altri studi sulla nebbia mentaleUna ricerca cinese della Zhejiang University School of Medicine, condotta su 29 pazienti e da poco pubblicata sul Journal of Psychiatric Research, dimostra la presenza di un’alterazione persistente nella attenzione sostenuta, ovvero la capacità di mantenere la vigilanza e prestare attenzione alle informazioni importanti durante l’esecuzione di un compito e per tutta la sua durata. Il campione è ristretto e non rappresentativo di tutta la popolazione. Uno studio francese dell’università di Parigi, che ha analizzato i dati di 120 pazienti ricoverati e poi guariti, ha rilevato che per mesi dopo la guarigione il 34% ha continuato a avere problemi di memoria e il 27% di concentrazione. Anche in questo caso il campione è ristretto e si tratta di pazienti ricoverati, dunque con forme gravi. C’è poi un’indagine canadese – ancora non pubblicato ma in via di pubblicazione – su 3.390 ex pazienti (Survivor Corps, sopravvissuti al Covid) che indica, stando a quanto riferito da Natalie Lambert, coordinatrice dello studio presso l’Indiana University School of Medicine, che più della metà dei partecipanti ha difficoltà di concentrazione o di messa a fuoco.
Le cause, ancora sconosciuteLe cause della nebbia mentale non sono ancora note. Riferire al medico i propri sintomi, anche quando si tratta di disturbi cognitivi, può essere molto importante per aumentare e diffondere la conoscenza sul problema. Molti sintomi – fra cui la perdita temporanea dell’olfatto e manifestazioni dermatologiche – sono state associate ufficialmente al coronavirus inizialmente proprio grazie alle segnalazioni dei pazienti. Una delle ipotesi alla base dell’annebbiamento cognitivo è un’attivazione persistente del sistema immunitario, anche dopo l’infezione. Le molecole infiammatorie prodotte dal nostro corpo potrebbero agire come tossine, anche per il cervello, come ha spiegato sul New York Times Serena Spudich, a capo del dipartimento di Infezioni neurologiche e Neurologia globale alla Yale School of Medicine.
Il long Covid: dalla stanchezza alla fatica mentaleI sintomi cognitivi sono solo una faccia possibile del long Covid. Ricordiamo che si stima che un terzo dei pazienti (soprattutto i più gravi) avrà un danno cronico ai polmoni, ma gli effetti negativi possono riguardare vari organi e tessuti corporei, fra cui il cervello, l’apparato cardiovascolare, il fegato, i reni e non solo. C’è poi chi prova stanchezza persistente (la sindrome da fatica post-virale), dolori e debolezza muscolare e affanno.
Long Covid riguarda anche i giovani e persone senza patologie - Wired
di Viola Rita
10 DEC, 2020
Circa un paziente su tre continua ad avere sintomi dopo più di 6 settimane. Si tratta anche di persone senza patologie pregresse. La consapevolezza del problema da parte dei medici (e non solo) è ancora ridotta e i pazienti non vedono riconosciuti i loro disturbi
Covid-19 può lasciare strascichi anche importanti, dopo la guarigione, da stanchezza persistente a dolore al petto, da affanno a sintomi neurologici e non solo. Si chiama long Covid ed è diffuso e studiato da vari gruppi in tutto il mondo. Oggi una nuova conferma del problema arriva uno studio condotto dall’università di Ginevra, che ha approfondito il tema e ha svelato che anche persone giovani e prima perfettamente in salute possono avere sintomi molto protratti nel tempo. La ricerca, pubblicata sugli Annals of Internal Medicine, ha stimato che circa un terzo dei pazienti che hanno ricevuto un test positivo per Sars-Cov-2 continuano ad avere sintomi anche dopo 6 settimane, una volta dichiarati guariti (negativi al virus).
Long Covid, lo studioIl gruppo di medici e epidemiologi svizzeri ha analizzato i dati di 700 persone con test positivo per Sars-Cov-2 (anche asintomatiche), di età media pari a 43 anni, che al momento della diagnosi non erano in condizioni gravi, tali da dover richiedere il ricovero. Di questi circa il 70% non aveva fattori di rischio particolari, ovvero patologie o condizioni precedenti associate a una maggiore probabilità di avere Covid grave o di andare incontro a decesso. I pazienti sono stati monitorati con follow-up in diversi momenti, in maniera molto assidua all’inizio e poi alla fine in un periodo compreso dai 30 ai 45 giorni dalla comparsa del primo sintomo.
Uno su tre ha sintomi persistentiDall’indagine emerge che circa un terzo delle persone coinvolte ha continuato ad avere uno o più sintomi anche dopo sei settimane dalla diagnosi. Lo studio non è andato oltre i 45 giorni di follow up per cui attualmente non siamo a conoscenza della durata totale dei sintomi e di quando sono eventualmente scomparsi. I sintomi che permanevano più a lungo sono stanchezza (nel 14% dei casi), affanno (9%) e perdita dell’olfatto e del gusto (12%), problemi diffusi e marcati che gli esperti ritengono con buona probabilità comunque transitori seppure prolungati. In più dopo 6 settimane il 6% ha riferito di avere ancora tosse e il 3% mal di testa.
Il medico spesso non riconoscere il problemaOltre ai disturbi fisici del long Covid, molti sono preoccupati del protrarsi della situazione e si chiedono quanto durerà o se sarà permanente – domande per cui non abbiamo ad oggi risposte certe al 100% anche se l’auspicio è che si tratti di problemi temporanei. In questo scenario l’ascolto della persona diventa ancora più importante, anche e soprattutto da parte del medico.
La persistenza dei sintomi deve essere riconosciuta, rimarcano gli autori, al fine di legittimare le preoccupazioni dei pazienti – che non devono essere considerate eccessive o fuori luogo – e per ottimizzare la loro presa in carico.
“Questo richiede una campagna d’informazione nel pubblico e fra gli operatori sanitari, ma anche, in maniera più ampia, fra i lavoratori delle compagnie d’assicurazione e in generale la società”, scrivono i ricercatori di Ginevra. “Tutti devono essere consapevoli che persone prima in salute possono essere colpite dal Covid-19 anche a distanza di settimane o mesi dopo l’infezione. Per questo la prevenzione è di essenziale importanza”. Attualmente gli scienziati stanno conducendo una ricerca che valuta l’eventuale impatto dei sintomi dopo 3, 7 e 12 mesi dall’infezione. Ancora non ci sono risposte a lungo termine sul long Covid, ma la sperimentazione procede.
Long Covid, ecco come il virus potrebbe riuscire a entrare nel cervello - Wired
di Viola Rita
24 DEC, 2020
Alcuni pazienti hanno sintomi cognitivi e neurologici anche protratti nel tempo. Una possibile spiegazione si troverebbe nell'ipotesi che attraverso la proteina spike il virus riesca a penetrare nel cervello, superando la barriera emato-encefalica. Il risultato per ora su animali
(foto: Pete Linforth via Pixabay)Ormai lo sappiamo: Covid-19 in alcuni pazienti può lasciare strascichi una volta che si è guariti, anche a lungo, con sintomi vari che possono protrarsi anche in persone giovani. Il Long Covid – così è stato chiamato dagli scienziati – può comportare anche problemi cognitivi (si è parlato di nebbia mentale). Non è un caso che oggi uno studio della University of Washington School of Medicine abbia appena mostrato che con ampia probabilità per cui il virus riesce a entrare nel cervello, penetrando la barriera emato-encefalica – un elemento, questo, che potrebbe spiegare anche alcuni sintomi cognitivi e neurologici di cui abbiamo parlato. I risultati, ottenuti per ora su animali, sono pubblicati su Nature Neuroscience.
Long Covid, i presuppostiNon è la prima prova del fatto che il Sars-Cov-2 potrebbe entrare nel cervello: un recente studio della Yale University aveva individuato la presenza del nuovo coronavirus nei neuroni corticali in qualche paziente deceduto (l’evidenza era stata ottenuta tramite autopsia). La ricerca odierna supporta quest’ipotesi con una prova forte, come spiegano gli autori, osservata nel topo.
La chiave di tutto: la proteina spikeCome sempre si va a cercare il primo responsabile del contatto e del contagio delle cellule dell’organismo da parte del virus: la chiave di tutto è la proteina spike del coronavirus che aggancia le cellule attraverso il loro recettore Ace2, una piccola proteina presente in molti tessuti, che favorisce il contatto. Le proteine spike presenti su tutte le unità virali sono dannose di per sé, dato che si staccano dal patogeno e causano infiammazione, come spiega William A. Banks, docente di medicina alla University of Washington School of Medicine. “Probabilmente – sottolinea Banks – la proteina spike causa il rilascio di citochine e prodotti infiammatori da parte del cervello”. Queste citochine sono molecole infiammatorie (in assoluto non tutte le citochine lo sono) e sono le principali responsabili, quando prodotte in eccesso (la cascata delle citochine), della grave infiammazione dei tessuti nel Covid-19, potenzialmente anche fatale. I ricercatori sono partiti dal fatto che un meccanismo simile avviene anche nell’infezione causata dall’Hiv e hanno voluto approfondire se questo possa accadere anche con il Sars-Cov-2.
I risultati: va peggio nei maschiI ricercatori hanno studiato come agisce, anche sul cervello, la proteina spike nei topi. Dall’analisi hanno osservato che la proteina riesce a penetrare e oltrepassare la barriera emato-encefalica, che protegge il tessuto cerebrale da patogeni e agenti estranei presenti nel sangue. La spike viene accolta da varie aree cerebrali e raggiunge il parenchima cerebrale un tessuto nervoso importante per la formazione e la trasmissione di impulsi elettrici. Questo accade sia quando la proteina spike del coronavirus viene iniettata sia tramite somministrazione intranasale – anche se in questo caso molto meno.
I problemi sono più accentuati nei maschi, in cui si osserva un trasporto più veloce della spike nel bulbo olfattivo, il centro nevralgico del riconoscimento degli odori, e nel rene. Anche nell’essere umano in generale i rischi maggiori, in termini di suscettibilità al Covid-19 e complicanze, si riscontrano nel sesso maschile e il risultato di oggi potrebbe avere un qualche legame anche con questo elemento.
I risultati “suggeriscono fortemente che la proteina spike riesca a superare la barriera emato-encefalica nel modello murino”, si legge nel testo, che fornisce dettagli sul meccanismo biochimico con cui questo avviene. I dati valgono nei topi e potrebbero anche non essere verificati nell’essere umano, come specificano gli autori, per cui al momento la prudenza è d’obbligo. Quello che è certo è che diversi pazienti hanno il long Covid e sperimentano sintomi cognitivi e neurologici spesso protratti nel tempo, fra cui perdita dell’olfatto, cefalea, confusione, disattenzione, mancanza di memoria – che probabilmente possono essere transitori. Anche se non ci si può pronunciare con certezza sui meccanismi, insomma, è possibile ipotizzare che in questi pazienti il virus riesca a entrare nel cervello.
Caserta Web:
I polmoni dei pazienti post Covid-19 restano compromessi da grosse cicatrici, peggiori dei fumatori | (casertaweb.com)
I polmoni dei pazienti post Covid-19 restano compromessi da grosse cicatrici, peggiori dei fumatori
Claudio Senese
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16 Gennaio 2021
La dottoressa Brittany Bankhead-Kendall, chirurgo traumatologo del Texas, afferma che raramente i raggi X dei suoi pazienti di COVID-19 tornano normali, senza grosse cicatrici. In uno dei suoi post su Twitter ha scritto “i polmoni di pazienti post-covid sono peggio di qualsiasi peggiore tipo di polmone di fumatori che abbiamo mai visto“.
“Tutti si preoccupano per la mortalità del Covid-19 e questo è terribile ed è orribile, ma per i sopravvissuti al virus e tutte le persone che sono risultate positive al test, le condizioni dei loro polmoni sarà il vero problema“, ha aggiunto la dottoressa Bankhead-Kendall.
La dottoressa texana da marzo ha curato migliaia di pazienti. Di loro, ha detto a CBS 11 News, che coloro che hanno avuto sintomi di Covid-19 mostrano sempre una grave radiografia del torace. E anche coloro che erano asintomatici mostrano una grave radiografia del torace nel 70 all’80% delle volte.
“Ci sono ancora persone che dicono ‘Sto bene, non ho problemi’ ma quando sollevi la radiografia del loro torace vedi subito una radiografia pessima“, ha detto. Di seguito abbiamo riportato delle foto di radiografie di un polmone normale, un polmone di un fumatore e un polmone di un paziente COVID-19 che la Bankhead-Kendall ha condiviso con CBS 11 News.
I polmoni sani sono puliti con il nero che rappresenta l’aria. Nel polmone dei fumatori, le linee bianche sono indicative di cicatrici e congestione. Mentre il polmone COVID è pieno di bianco. “Se si vedono molte di quelle cicatrici bianche e dense in tutto il polmone e se non si accusa alcuni problema ora, il fatto che sia sulla radiografia del torace è sicuramente indicativo che ci saranno problemi in seguito“, ha detto la dott.ssa Bankhead-Kendall.
La dottoressa ha concluso dicendo che adesso è troppo presto per conoscere l’entità dell’impatto del Covid-19 sul nostro corpo o se le cicatrici guariranno, tuttavia ha ammonito che è importante che se si continua a soffrire di mancanza di respiro dopo che il Covid-19 è andato via, è consigliabile rimanere in contatto con il medico di base.
Altri disastri di questo fottuto virus:
Covid-19: una malattia multisistemica capace di attaccare non solo l’apparato respiratorio, ma tutti gli organi vitali con serie conseguenze - InfoNurse
“Una delle complicanze più rilevanti è un quadro di infiammazione sistemica a livello dell’endotelio e quindi dei vasi; che implica problematiche di tipo cardiovascolare e trombotico. Sono emerse anche manifestazioni a carico di altri organi, senza trascurare disturbi psico-somatici che persistono anche dopo mesi dalla guarigione” chiarisce il Prof. Claudio Mastroianni, Vicepresidente SIMIT
Covid-19 interessa non solo i polmoni, organo principale a essere colpito, come noto dalle crisi respiratorie che affliggono i pazienti sintomatici. Si tratta infatti di una malattia multisistemica che può causare danni anche in altri organi e apparati. A questo tema è stata dedicata la Tavola Rotonda online di questa mattina “L’esperienza clinica italiana nell’emergenza Covid come fondamento di una documentazione di consenso istituzionale”; organizzata con il contributo non condizionato di Gilead Sciences e con la partecipazione di specialisti appartenenti a diverse branche: il Prof. Massimo Antonelli, Direttore dell’Istituto di Anestesia e Rianimazione, Policlinico A. Gemelli; il Prof. Claudio Mastroianni, Vice Presidente SIMIT – Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali, Direttore Malattie Infettive, Policlinico Umberto I, Roma; la Prof.ssa Ketty Peris, Direttore UOC di Dermatologia, Policlinico A. Gemelli; il Prof. Luca Richeldi, Direttore di Pneumologia, Area Torace, Policlinico A. Gemelli; l’On. Claudio Pedrazzini, XII Commissione Affari Sociali Camera dei Deputati.
IL COVID-19, MALATTIA MULTISISTEMICA
Le esperienze cliniche maturate in questi mesi di emergenza hanno mostrato come gli effetti del Covid-19 nei pazienti sintomatici abbiano molteplici manifestazioni. Proprio in virtù di quanto si è verificato, sono emerse le basi per creare un percorso strutturato: il danno d’organo nel breve, medio e lungo termine; valutato in ambito multidisciplinare, deve essere tenuto in considerazione per condividere le pratiche migliori ed andare incontro a linee guida o documentazioni di consenso.
“Una delle complicanze più rilevanti è un quadro di infiammazione a livello dell’endotelio e quindi dei vasi, che implica problematiche di tipo cardiovascolare e trombotico: questo è molto importante perché provoca un fenomeno di ipercoagulabilità; ossia la tendenza del sangue a formare coaguli (trombi) con una frequenza maggiore del normale, quindi di trombo-infiammazione per cui i pazienti possono avere quadri di trombosi molto importanti – evidenzia il Prof. Mastroianni – Non mancano poi manifestazioni anche su altri organi, a livello dermatologico, renale, neurologico.
Non solo si può verificare un danno organico di tipo vascolare, ma anche uno legato a problematiche da stress. Anche nei pazienti che guariscono persiste una sindrome post Covid, caratterizzata da stanchezza e da processi infiammatori che vanno accuratamente valutati e gestiti. Spesso vi sono anche manifestazioni cardiometaboliche, che si possono presentare in forme più gravi nei soggetti diabetici; si possono verificare manifestazioni gastrointestinali che possono portare a un aumento della traslocazione microbica. I danni neurologici non si limitano solo alla perdita temporanea di gusto e olfatto, ma possono manifestarsi quadri clinici più gravi come ictus; infine da non trascurare lo stress post traumatico.
Non dimentichiamo poi che l’infezione da SARS-COV-2 può rendere complicata la gestione di pazienti immunodepressi, come le persone con patologie onco-ematologiche. Questi dati ci inducono a valutare la necessità di un approccio multispecialistico e multidisciplinare che non coinvolga solo infettivologi, pneumologi, medici d’urgenza, anestesisti, che comunque restano le figure di riferimento nella gestione clinica della malattia”.
L’ATTACCO DEL SARS-COV-2 AI DIVERSI ORGANI E I DISTURBI RESPIRATORI
Questi 9 mesi di Covid-19 in Italia hanno mostrato che i sintomi più severi sono febbre, tosse, aumento della frequenza respiratoria, bassa saturazione di ossigeno. Tuttavia, gli effetti rischiano spesso di essere ben peggiori. “Il virus Sars-CoV-2 si caratterizza per il fatto che attacca i recettori ACE2; che sono ubiquitari nel nostro organismo e di conseguenza la sua proteina di superficie si lega a questi recettori in diversi organi – spiega il Prof. Massimo Antonelli – Questo non avviene solo al livello delle cellule alveolari, ma anche con le cellule endoteliali. Inoltre, essendo i recettori ubiquitari, anche altri organi vengono colpiti; come il rene: il 27% del campione identificato già nel mese di marzo dall’ISS di insufficienze renali si spiega attraverso questo duplice punto di attacco, endotelio ed epitelio. Il primo è comune a polmone e rene, il secondo ha le sue caratteristiche specifiche”.
“Un recente studio dell’Università di Trieste, relativo a un significativo numero di autopsie, fa emergere che al livello dell’interstizio polmonare c’è un grande rimaneggiamento avendo anche a distanza la cosiddetta metaplasia sinciziale; ossia una modificazione reversibile della funzione respiratoria, che pregiudica ancora di più gli scambi gassosi oltre a quello che avviene nel momento iniziale. Queste sono delle sindromi che al loro esordio noi chiamiamo ARDS, Sindrome da Distress Respiratorio Acuta, con caratteristiche ben precise” aggiunge il Prof. Antonelli.
LE MANIFESTAZIONI CUTANEE DEL COVID-19
Le prevalenza di manifestazioni cutanee in corso di Covid-19 è riportata in percentuali molto variabili; ma compare comunque fino al 20% dei casi, dimostrando dunque una presenza non trascurabile. “In questi mesi sono stati meglio caratterizzati gli aspetti clinici e istologici delle lesioni cutanee fino a delinearne una sorta di classificazione; visto che possono essere di forme variabili – spiega la Prof.ssa Ketty Peris – Vi sono manifestazioni esantematiche, tipo varicella o morbillo; manifestazioni maculo-papulose, le più frequenti, presenti in quasi il 50% dei pazienti; lesioni vascolari; altre manifestazioni come quella orticarioide, meno frequenti.
Alcune di queste manifestazioni emergono durante l’infezione virale; altre sono precoci e potrebbero essere un segno di un paziente asintomatico ma in grado di trasmettere l’infezione. Purtroppo questi studi sono ancora limitati: non sempre queste manifestazioni hanno confermato la positività dell’infezione. A volte è difficile distinguere se la manifestazione cutanea sia causata dal Covid o da un farmaco usato contro questa patologia come l’idrossiclorochina o alcuni antivirali e retrovirali che a volte danno importanti manifestazioni di questo tipo. Ciò che possiamo dire con certezza è che le manifestazioni cutanee sono frequenti e devono essere meglio caratterizzate per trarne indicazioni importanti per diagnosi precoci e trattamenti mirati”.
IL CONTRIBUTO DELLE ISTITUZIONI
A portare il punto di vista istituzionale, l’On. Claudio Pedrazzini, tra i primi parlamentari a risultare positivo al Covid-19 lo scorso marzo. “Questi mesi di pandemia ci suggeriscono diverse riflessioni. Anzitutto, emerge la necessità di un rinnovamento della medicina del territorio e un’implementazione delle nuove tecnologie come la telemedicina: questi strumenti devono essere funzionali a una più efficiente assistenza domiciliare, che possa garantire un alleggerimento delle pressioni sugli ospedali per i casi non gravi.
Serve dunque un’organizzazione sanitaria che parta dai Medici di Medicina Generale, che devono essere incentivati e avere gli strumenti adeguati per offrire i propri interventi. Un altro aspetto importante è la tutela che deve essere riservata ai pazienti sintomatici anche dopo che siano usciti dalla malattia: il post Covid, quel periodo in cui i pazienti devono affrontare le conseguenze della malattia, può durare anche uno o due mesi prima di recuperare la piena forma superando stanchezza, dolori muscolari, problemi respiratori”.
Caso Svezia, ennesima volta.
Study compares deaths in Sweden and Norway before and after COVID pandemic (news-medical.net)
Study compares deaths in Sweden and Norway before and after COVID pandemic
By Dr. Tomislav Meštrović, MD, Ph.D.
Nov 16 2020
A recent epidemiological study, currently available on the medRxiv* preprint server, demonstrates that all-cause mortality was mostly unchanged during the coronavirus disease (COVID-19) pandemic compared to the previous four years in Norway and Sweden – two countries which took very different routes in their battle against this disease.
Study: Mortality in Norway and Sweden before and after the Covid-19 outbreak: a cohort study. Image Credit: Sasha Strekoza / Shutterstock
The total confirmed cases of COVID-19 around the world, caused by the severe acute respiratory syndrome coronavirus 2 (SARS-CoV-2), now stands at over 54.82 million infections, with over 1.32 million deaths and 35.21 million recoveries (as of November 16, 2020).
Nonetheless, a precise assessment of the COVID-19 burden has been hindered by the lack of comprehensive data on the disease and the benefits and harms of the measures implemented against it. Moreover, cause-specific death rates can be prone to bias, particularly for a disease with a high asymptomatic burden and testing/reporting differences.
Hence, all-cause mortality trends may give us a much more reliable alternative for appraising the burden of an epidemic in different countries and regions, as well as national strategies that can differ substantially.
Mortality rates per 100,000 individuals in Norway (brown) and Sweden (blue) for 29th July, 2019 to 26th July, 2020 (solid lines), mean 2015-2019* (dashed lines), and Covid-19 associated mortality rates (dotted). Red vertical line shows the time point for the Covid-19 outbreak in Norway and Sweden (11th and 12th March).
A tale of two neighboring countries
Norway and Sweden are kindred countries in regards to ethnicity, administrative systems, socioeconomics, and public health care systems. Furthermore, both have reliable, stringent, timely, and comprehensive registration of deaths.
In the fight against COVID-19, Norway implemented harsh and extensive measures (such as lock-downs and school closures) and reported lower burden of severe cases and few COVID-19 associated deaths. Conversely, Sweden had a much less intrusive strategy but has been criticized for reporting more COVID-19 associated disease and deaths.
In Sweden, however, mortality was overall lower than expected in the months preceding the epidemic. This sets the stage for a natural experiment and opens the door for specific difference-in-difference analyses.
The opportunity was embraced by researchers from Norway and Sweden, led by Dr. Frederik E Juul from the Clinical Effectiveness Research Group at the Oslo University Hospital and the University of Oslo. They decided to dive deep into data and compare the effect of different national strategies on all-cause and COVID-19 associated mortality.
A cohort study approach
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These scientists have also compared COVID-19 associated deaths and mortality rates for the weeks of the epidemic in Norway and Sweden (between March 16 and July 26, 2020). The data were obtained from the main data registries in these two countries that are close to 100% complete due to mandatory reporting.
All COVID-19 associated mortality (defined as deaths among individuals with a positive COVID-19 test up to thirty days before death) stratified by age has been retrieved from the Institute of Public Health in Norway and the Public Health Agency of Sweden.
All-cause mortality as a key measure?
"Our study shows that although Covid-19 associated mortality rate was almost 15-fold higher in Sweden than in Norway during the epidemic, all-cause mortality was not higher in Sweden compared with three of the four preceding years", say study researchers.
More specifically, mortality rates in Norway were relatively stable during the first three 12-month periods of 2015/16, 2016/17, and 2017/18 (ranging between 14.8 and 15.1 per 100,000 individuals), and slightly lower in the two periods preceding and during the epidemic (2018/19 and 2019/20 with a rate of 14.5 per 100,000 individuals).
On the other hand, all-cause mortality in Sweden was stable during the first three 12-month periods of 2015/16, 2016/17, and 2017/18 (ranging between 17.2 to 17.5 per 100,000 individuals), but lower in the year 2018/19, which immediately preceded the epidemic (16.2 per 100,000 individuals).
In any case, a rise in all-cause mortality was only visible in comparison to the immediately preceding period (2018/19), as mortality was lower when compared to the previous years. Furthermore, excess mortality was limited to individuals older than 70 years.
Conversely, mortality rates were lower than expected for all ages in Norway and those younger than 70 years in Sweden. Finally, the rates of registered infectious diseases other than COVID-19 have decreased.
The role of mortality displacement
"Our study shows that all-cause mortality was largely unchanged during the epidemic as compared to the previous four years in Norway and Sweden, two countries which employed very different strategies against the epidemic," emphasize study authors in this medRxiv paper.
In other words, excess mortality from COVID-19 may be less conspicuous than previously perceived in Sweden, while mortality displacement may be used to explain at least part of the observed findings.
More specifically, mortality displacement implies temporarily increased mortality (i.e., excess mortality) in a certain population as a result of external events, which likely arises because individuals in vulnerable groups die weeks or months earlier than they would otherwise – primarily due to the timing or severity of the unusual external event. The excess mortality is, thus, predated or followed by time periods of lower than expected mortality.
In conclusion, the researchers hope that these findings can open the door for a less polarized and non-judgmental discussion about the benefits and drawbacks of either more lenient or more drastic measures against the COVID-19 pandemic.
Don't get it.
Chris Optional says:
December 30, 2020 at 12:07 PMI fail to understand this. The graph suggests 500 deaths in Sweden which is now over 8,000 in December which doesn't compute . Whereas Norway's graph is about 200, now 480 in December, which seems about right.
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- It's not meant to Understand
Carol Anderson says:
January 8, 2021 at 10:09 PMI read the link to the actual paper which was easier to read. Still it seems to be misleading for a study about COVID.. The research compares the time period from July 2019 to July 2020 to previous 12 month periods July to July. The pandemic did not begin for the world until mid March 2019. They will need to compare from April 2019 to April 2020 to other previous 12 month periods for a better representation of a pandemic year compared to others.
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.....CAPITO I FURBACCHIONI? Iniziano a calcolare da luglio 2019 a luglio 2020, che truffa bella e buona!
Caso Svezia-bis:
Contrary to public official's statements, there is an excess mortality of 30% in Sweden as a whole (euroweeklynews.com)
Contrary to public official’s statements, there is an excess mortality of 30% in Sweden as a whole
By Ratsit Information
11 June 2020
Sweden is becoming the epicentre in Europe for coronavirus deaths.A joint investigation between Ratsit and SVT – the Swedish national public television broadcaster – shows excess mortality at 30% during the coronavirus pandemic in the nation’s retirement and nursing homes. In Stockholm County, Sweden’s capital region, the investigation found excess mortality of 100%.
Sweden has been the focus of much international news coverage during the global coronavirus pandemic, as its strategy for handling the crisis – avoiding national lockdown with a goal of reaching herd immunity through “controlled spread” – is unique in the world. The small Scandinavian nation currently has one of the highest numbers of confirmed COVID-19 deaths per million people in the world, much higher than its Scandinavian neighbours.
Swedish authorities believe Sweden has the right strategy
Many Swedes, its government, and the Public Health Agency of Sweden (Folkhälsomyndigheten) believe that this strategy is the right choice. However, criticism has been levied against the Swedish coronavirus strategy domestically as well, especially about the spread of the virus in nursing and retirement homes throughout the country.
Thomas Lindén, a department director at the National Board of Health and Welfare (Socialstyrelsen), told Swedish newspaper Sydsvenskan in May that the numbers are “similar every year” (link in Swedish) during flu season, effectively trying to downplay the pandemic’s toll on the country.
Investigation shows: Deaths in 2020 not similar to other years
SVT, the Swedish national public television broadcaster (similar to the BBC in the UK), decided to investigate whether or not Lindén’s statement was true and sought Ratsit’s help to do so. The investigation analyzed the ten most intense weeks of the coronavirus pandemic in the country: March 2nd through May 10th of 2020.
In their analysis, SVT’s reporters cross-referenced lists of retirement and nursing home addresses from data providers Infotorg (a Bisnode company) and Retriever with data on registered deaths of persons residing at those same addresses – i.e. their patients – from Ratsit. They then compared this to the number of deaths from the same period during 2017-2019.
The result? A nationwide excess mortality rate of 30% in 2020.
Excess mortality is a measurement of how many more people on average, die during a certain period of time. While it is not proof of COVID-19 related deaths, it is useful as an indicator of where the pandemic has spread. As retirement and nursing home residents are old and often ill, they are especially at risk during this pandemic.
Some of the most important findings of the investigation follow below:
- Stockholm County, a national epicentre of the pandemic, saw excess mortality of 100%.
- April 15th was the deadliest day in Sweden’s nursing and retirement homes. It is also the day on which most people in Sweden died from COVID-19, according to government statistics.
- The deadliest three-day period in nursing and retirement homes was April 15-17 – the days after Easter weekend.
- There are large differences around the country. For example in Malmö, Sweden’s third-largest city, the mortality rate fell with 14% during the same period.
- Contrary to Lindén’s statement, the National Board of Health and Welfare’s own numbers show an even higher nationwide excess mortality of 40%, when verified by SVT’s reporters.
Some Swedish counties fared better, and some fared significantly worse. Stockholm County, a national epicentre of the pandemic and the most heavily populated area of Sweden, saw excess mortality of 100%. Other regions that stand out are Västmanland County with 62% excess mortality, Östergötland County with 41%, Jämtland County with 39%, and Södermanland County with 37%.
SVT further identified around 40 individual facilities where excess mortality was over 100% during the analysis period. The majority of these facilities are located in the Stockholm area, but others were also found in cities in other parts of the country like Borlänge, Göteborg, Gävle, and Linköping.
“While avoiding a lockdown may have spared the Swedish economy to an extent and may work well for most Swedes, it is alarming and deeply tragic that our institutions have failed to protect some of our most vulnerable,” said Anders Johansson, CEO of Ratsit
The investigation showed no significant difference in excess mortality rates between publicly and privately-owned retirement and nursing homes.
The National Board of Health and Welfare’s own numbers are even higher
After receiving access to the National Board of Health and Welfare’s own numbers, SVT found that those indeed show excess mortality on the national level as high as 40%, an even higher number than found during the investigation with Ratsit.
Despite much media coverage and a lively debate both in Sweden and around the world, many Swedes still believe in their government and its agencies, and that the decision to not shut the country down was, and still is, the way to go. But there is also growing consensus that Sweden has failed to protect its elderly during the coronavirus outbreak, and realized it far too late.
Link to Ratsit’s and SVT’s Swedish article.
Israele non ha troppo successo nel debellare il coviddi col vaccino (a proposito, ma i Gazawi?)
Vaccino Pfizer, il caso Israele. Contagiato il 6,6% di chi ha ricevuto la prima dose. Il virologo Pregliasco: "Questi dati confermano esigenza seconda dose e monitoraggio fase 4" - Il Fatto Quotidiano
Nonostante il lockdown in corso e il record di immunizzati sono stati registrati più di 10mila nuovi casi. Ma secondo un nuovo e recente studio sierologico condotto all’ospedale Sheba di Ramat Gan, vicino a Tel Aviv, una settimana dopo la seconda dose di vaccino, gli anticorpi contro il Covid diventano più alti, tra 6 e 20 volte rispetto alla prima dose
di Giovanna Trinchella | 20 GENNAIO 2021
Con oltre 2 milioni e 700mila di dosi somministrate Israele è tra i primi paesi a sfiorare una percentuale che comincia a essere significativa per gli scienziati. Secondo i dati raccolti da ourworldaindata il 26% della popolazione che ha ricevuto almeno una dose. Un piccolo record che però diventa anche una sorta di grande test per la fase 4 dei vaccini, quella sul campo e che sottopone a sorveglianza per almeno 24 mesi i composti. Ecco che da Tel Aviv arriva un primo dato importante riferito dal coordinatore della lotta al Covid, Nachman Asch, nel corso di un’audizione al ministero della sanità ovvero che l’efficacia della prima dose del vaccino Pfizer è risultata inferiore alle aspettative e dunque è particolarmente importante completare la vaccinazione assumendo anche la seconda dose. Secondo dati ottenuti dal quotidiano Haaretz, complessivamente 12.427 israeliani sono stati contagiati da coronavirus dopo aver ricevuto la prima dose: si tratta del 6,6 per cento di un campione di 189mila persone. Nei primi sette giorni i contagi sono stati 5.348, fra l’ottavo ed il quattordicesimo giorni 5.585 e poi 1.410 fra il quindicesimo e il ventunesimo giorno. Altri 84 sono stati contagiati quando erano trascorse tre settimane dalla prima vaccinazione. Ieri il ministro della Sanità, Yuli Edelstein, ha precisato che finora in Israele sono state vaccinate 2,2 milioni di persone. E di queste 422 mila hanno già ricevuto anche la seconda dose. Nei giorni scorsi le vaccinazioni sono state fino a 168mila e l’obiettivo è di superare le 200 mila vaccinazioni al giorno. Da ieri possono richiederle quanti hanno almeno 40 anni.
LEGGI ANCHEVaccinazione anti Covid, l’immunologa Viola: “II fattore tempo è fondamentale. La pressione selettiva potrebbe far emergere varianti”“Questi dati confermano l’esigenza della doppia dose, di una attenzione e di un monitoraggio della vaccinazione e anche lo sviluppo di test sierologici che possano monitorare nel tempo una situazione peraltro conosciuta su tanti altri vaccini. Sono dati che quindi devono soltanto farci pensare – dice interpellato dal Fattoquotidiano.it Fabrizio Pregliasco, virologo all’Università degli Studi di Milano e direttore sanitario dell’ospedale Galeazzi – a una corretta pianificazione della campagna di vaccinazione secondo i tempi previsti e anche eventuali valutazioni sul campo in quelle situazioni in cui malattie intercorrenti o altri condizioni particolari determinano una interruzione della vaccinazione”. Secondo il ricercatore, specializzato anche in Igiene e Medicina Preventiva che due giorni fa ha ricevuto la seconda dose di vaccino, quindi sono importanti i tempi e il monitoraggio “con una valutazione dei casi atipici da aggregare” per poter per esempio “valutare modifiche nella schedula vaccinale e altri ritocchi che naturalmente sono tipici della fase 4. La fase 1, la 2 e la 3 sono pre registrative, ora valutiamo gli eventi avversi rari, l’efficacia e tutto il resto in questa fase 4 di farmacovigilanza tipica di ogni farmaco e prodotto o vaccinale immesso sul mercato per tutta la durata del suo utilizzo”. Bisognerà quindi vigilare su quella “quota di persone che andranno a vaccinarsi, ma non seguiranno per motivi vari quello che è lo schema standard 0-21 giorni. Questo ci potrà servire per capire quali sono le implicazioni e gli effetti di questa casistica alterata rispetto alle disposizioni formali”.
LEGGI ANCHECovid, vaccinare dopo gli altri chi è stato già malato? Il nodo della durata degli anticorpi. “Sarebbe saggio” “No, troppo rischioso”Anche il professor Silvio Garattini, farmacologo e presidente dell’Istituto Mario Negri che ha ricevuto proprio la seconda dose del vaccino Pfizer lunedì, sostiene che non bisogna preoccuparsi per questi dati. “È una cosa che sapevamo, anche Pfizer aveva dichiarato che la prima dose non proteggeva e quella è la ragione perché bisogna la seconda. La nota israeliana testimonia quello che sappiamo che dopo la prima dose può esserci un’infezione. Mi pare di ricordare che Pfizer avesse comunicato che dopo la prima dose ci fosse il 52% di protezione ed è la seconda che arriva al 90%. È un bene saperlo, ma non dobbiamo preoccuparci. La seconda dose bisogna perchéla prima non è assolutamente sufficiente”.
E infatti secondo un nuovo e recente studio sierologico condotto all’Ospedale Sheba di Ramat Gan, vicino a Tel Aviv, una settimana dopo la seconda dose di vaccino, gli anticorpi contro il Covid diventano più alti, tra 6 e 20 volte rispetto alla prima dose. La ricerca riguarda il 98% del personale sanitario che ha completato la vaccinazione e che è stato oggetto delle analisi. Lo studio ha riguardato 102 campioni esaminati ad una settimana di distanza dalla seconda inoculazione, ovvero nel momento in cui si ritiene che il vaccino raggiunga il suo picco di efficacia. Altre centinaia di campioni sono in attesa di essere esaminati. Gili Regev-Yochay, direttrice dell’Unità epidemiologica delle malattie infettive, ha detto che i risultati iniziali hanno mostrato che i livelli di anticorpi sono alti abbastanza da uccidere ogni particella virale. “Questo significa che il vaccino lavora magnificamente”, ha spiegato, aggiungendo che i risultati “sono in linea con le prove effettuate dalla Pfizer e vanno oltre le aspettative. Mi aspetto che anche gli altri esami sul resto degli operatori sanitari siano simili. Tutto ciò induce all’ottimismo”.
LEGGI ANCHERecord di vittime in Regno Unito: oltre 1.600. Germania, verso lockdown prolungato al 14 febbraio. In Israele fino al 31 gennaioIn Israele, nonostante il lockdown in corso, sono stati registrati più di 10mila nuovi casi: un record dall’inizio della pandemia nel paese. Secondo i dati del ministero della sanità i casi sono stati 10.021 a fronte di circa 100mila test con un tasso di positività del 10,2%. In aumento anche i casi gravi che ora sono 1.114, i decessi sono arrivati, da inizio malattia, a 4.049. Secondo i media – che citano statistiche dell’Università di Oxford – Israele è risalito nella classifica dei paesi con il più alto numero di casi rispetto alla popolazione. Diversi ospedali denunciano sovraffollamenti. Le aeree dovei contagi sono più numerosi sono quelle arabe e quelle popolate da ebrei ortodossi. Nelle prime resta bassa la percentuale di quanti si vaccinano. Nel rioni ortodossi invece la polizia è stata più volte attaccata da dimostranti quando ha cercato di impedire lo svolgimento di lezioni in scuole che dovevano restare chiuse. Nei giorni scorsi due importanti rabbini, Haim Kanyevski e Gershon Edelstein, hanno intanto vietato agli allievi di entrare nei Covid hotel perché sarebbero stati esposti, a loro dire, “a pericoli spirituali”. Senza contare che le autorità sanitarie devono fare i conti anche con esternazioni pericolosissime come quelle riportate dal Israel Ha-Yom secondo cui un rabbino ortodosso durante un sermone ha messo in guardia chi lo ascoltava sostenendo che la vaccinazione potrebbe “trasformarli” in gay. Un caso isolato visto che i rabbini leader in Israele e nel mondo hanno invece spinto i loro fedeli a seguire con attenzione le regole sanitarie e a vaccinarsi al più presto, visto che tra questo tipo di popolazione si registrano alti tassi di morbilità. Infine è in corso anche durissimo confronto nel governo sull’immunizzazione dei detenuti.
Mentre la Pfizer, malgrado i disservizi di fornitura e i dubbi sull'efficacia e gli effetti collaterali, insiste a dire che va tutto OK:
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Vaccino Covid, Pfizer conferma efficacia “contro la variante inglese” del virus. Oms: “Rilevata in 60 paesi”. Primi casi a Pechino
Risultati considerati incoraggianti questi perché basati su un'analisi più ampia rispetto a quella rilasciata dalla casa farmaceutica statunitense l'8 gennaio in collaborazione con l'Università del Texas
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La variante inglese del coronavirus Sars Cov 2 continua a diffondersi nel mondo ed tra i 60 paesi in cui è stata rilevata c’è la Cina con i primi casi a Pechino. Ma i risultati di ulteriori test di laboratorio confermano che il vaccino sviluppato da Pfizer e BioNTech sarà efficace contro questa mutazione. Risultati considerati incoraggianti questi perché basati su un’analisi più ampia rispetto a quella rilasciata dalla casa farmaceutica statunitense l’8 gennaio in collaborazione con l’Università del Texas. Pfizer aveva già affermato che secondo quanto emerso da uno studio il vaccino si è rivelato efficace contro una mutazione chiave, chiamata N501Y, trovata in entrambe le nuove varianti che si stanno diffondendo in Gran Bretagna e Sud Africa. Quest’ultimo studio, che però non è stato ancora sottoposto a peer review, è stato condotto su dieci mutazioni, caratteristiche della variante nota come B117 identificata in Gran Bretagna.
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Ad oggi – informa l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) nel suo report settimanale sull’andamento di Covid-19, aggiornato al 17 gennaio – il virus così mutato è stato segnalato in 60 Paesi: 10 nazioni in più rispetto all’ultimo rapporto del 12 gennaio. Salgono anche i Paesi che registrano casi della cosiddetta variante sudafricana (501Y.V2), segnalata in tre nuove nazioni per un totale di 23 paesi. Entrambi i mutanti mostrano una maggiore contagiosità rispetto al virus originario. L’Agenzia delle Nazioni Unite per la sanità ricorda inoltre che sono emerse due varianti brasiliane, denominate P.1 e B.1.1.28. “Attualmente sono disponibili poche informazioni per valutare se per effetto di queste nuove varianti ci sono cambiamenti nella trasmissibilità o nella gravità dell’infezione – si legge nel report – Tuttavia, considerando che presentano mutazioni simili a quelle osservate in VOC202012/01 e 501Y.V2, che hanno mostrato una maggiore trasmissibilità e potenziali impatti sulla neutralizzazione degli anticorpi, sono necessarie ulteriori indagini, già in corso”.
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Nell’ultima settimana – riporta l’Oms – sono stati segnalati nel mondo 4,7 milioni di nuovi casi di infezione da Sars-CoV-2, con un calo del 6% rispetto alla settimana precedente, per un totale di oltre 93 milioni di contagi da inizio pandemia. I nuovi decessi sono invece aumentati del 9%, a un “livello record” di 93mila, portando il bilancio complessivo delle vittime di Covid-19 a più di 2 milioni. Americhe, Europa e Sudest asiatico hanno mostrato una flessione dei nuovi casi (in particolare l’Europa che riporta un calo del 15%), mentre Mediterraneo orientale, Africa e Pacifico occidentale hanno riportato una crescita dei nuovi positivi (specie la regione Pacifico occidentale con un +14%). I 5 Paesi che nell’ultima settimana hanno registrato il maggior numero di casi sono gli Usa (1.583.237 casi, -11%), il Brasile (379.784 casi, +21%), il Regno Unito e Irlanda del Nord (339.952 casi, -19%), la Russia (166.255 casi, +1%) e la Francia (125.279 casi, +2%).
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17 GENNAIO 2021La variante brasiliana di Sars Cov 2 – isolata la prima volta in Giappone in quattro persone rientrate dal Brasile – “è una variante bella tosta, che ci tocca studiare e studiare parecchio. E chiudere i voli dal Brasile”, da parte del ministro della Salute Roberto Speranza, “è stata una decisione necessaria e sacrosanta”. Non nasconde timori per la nuova ‘versione’ del patogeno responsabile di Covid Massimo Galli, infettivologo dell’ospedale Sacco e dell’università degli Studi di Milano. “La variante brasiliana, che ha fatto già chiudere l’Inghilterra, è una cosa pesante purtroppo”, avverte l’esperto parlando con l’Adnkronos.
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Quello che è capitato a Manaus – sottolinea – mette la pietra tombale sulla strategia di chi ha in mente di far circolare il virus indisturbato per arrivare a un’immunità di gregge a furia di infezioni. A Manaus è accaduto invece che, lasciando girare il virus come gli pare, si è avuta sì una percentuale importante di gente che si è infettata e quindi immunizzata, ma non importante abbastanza per creare una vera barriera. È successo quindi che il virus ha sviluppato la mutazione giusta per tornare a essere in grado di colpire non solo quelli che non aveva ancora infettato, ma in qualche caso a quanto pare anche quelli che si erano già ammalati. È un elemento di notevole preoccupazione”, ammonisce l’esperto. La variante brasiliana mette a rischio l’efficacia dei vaccini? “Non lo sappiamo ancora”, risponde Galli: “La mutazione 501 alla fine pare di no, ma la 484k, che in un ceppo brasiliano si associa alla 501y, non sappiamo ancora se il vaccino la prende o non la prende e credo che verificarlo sarà il primo lavoro che faranno alla Pfizer. Le mutazioni virali emergono casualmente – ricorda lo specialista – ma se sono vantaggiose, la prole del primo virus che in cui compare “la mantiene” e questo sembra essere il caso. “Arrivasse mai una buona notizia”, chiosa il medico.
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L’aumento delle varianti, che non sono inaspettate ovviamente in un virus, impone un tracciamento che gli scienziati chiedono ormai da settimane con strutture ad hoc. Di qui l’appello dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) a raccogliere le sequenze genetiche delle nuove varianti in uno sforzo globale. Il Comitato dell’Oms per le emergenze ha esortato inoltre a mettere a punto un sistema standardizzato per la denominazione delle nuove varianti che eviti i riferimenti geografici. L’ultima arrivata, la variante brasiliana appunto, è stata isolata il 6 gennaio scorso dall’Istituto nazionale giapponese per le malattie infettive (NIID) ed è indicata con la sigla B.1.1.248. Nasce da 12 mutazioni concentrate sulla principale arma del virus, la proteina Spike, e fra queste mutazioni ce ne sono le due già note per rendere il virus più efficace nel contagiarsi, chiamate N501Y e E484K.
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La prima variante a essere stata identificata è stata quella indicata con la sigla D614G e nata anche questa da mutazioni concentrare soprattutto sulla proteina Spike. La variante inglese, indicata con le sigle 20B/501YD1 oppure B.1.1.7, è caratterizzata da ben 23 mutazioni, 14 delle quali sono localizzate sulla proteina Spike. È comparsa in Gran Bretagna in settembre ed è stata resa nota a metà del dicembre scorso. Finora è stata identificata in 33 Paesi, compresa l’Italia con una ventina di casi. Anche in questo caso a preoccupare è il fatto che la mutazione rilevata nella posizione 501 della proteina Spike può rendere il virus più contagioso. È indicata con la sigla N501Y la variante del virus isolata in ottobre Sudafrica. Caratterizzata da una maggiore capacità di contagio e da una carica virale più alta, anche questa è legata a più mutazioni localizzate sulla proteina Spike. Altre mutazioni nella stessa proteina hanno portato alla variante N501T, che in Italia è stata isolata a Brescia e che potrebbe risalire ad agosto. Secondo ricerche recenti potrebbe essere una ‘sorella’ della variante inglese, dalla quale si sarebbe separata in marzo. Viene infine indicata con “cluster 5” la variante comparsa negli allevamenti di visoni in Danimarca e trasmessa all’uomo. In Italia sono inoltre diffuse le varianti 20A.EU1 e 20A.EU2, comparse in estate in Spagna e arrivate nel nostro Paese all’inizio dell’autunno.
La vitamina D fa bene, ma nessuno ne parla:
"Covid, con la vitamina D rischio di decesso e ricovero in Intensiva calato dell'80%" (ilrestodelcarlino.it)
"Covid, con la vitamina D rischio di decesso e ricovero in Intensiva calato dell'80%"
La ricerca guidata dal professor Giannini e che vede coinvolte l'Università di Padova e Parma: "Maggiori benefici per chi ha più patologie"
Articolo Anticorpi Coronavirus, primo studio al mondo sull'uomo. "Potenziale cura al Covid"
Video Covid, Papa Francesco: "Trovare cura per i virus umani"Articolo Anticorpi monoclonali, dalle Coop 1.5 milioni per la ricerca
Articolo Covid e obesità: "Il rischio raddoppia, ecco perché"
Padova, 19 gennaio 2021 -
La vitamina D diminuisce il numero di decessi per Coronavirus e i trasferimenti in terapia intensiva per chi è colpito dal virus. A dirlo sono i risultati del primo studio italiano pubblicato su 'Nutrients' coordinato dall’Università di Padova. Il team di ricercatori, che vede coinvolte le Università di Parma, di Verona e gli Istituti di Ricerca Cnr di Reggio Calabria e Pisa, guidato dal professor Sandro Giannini dell’Università di Padova ha infatti evidenziato scientificamente l’effettivo ruolo della vitamina D sui malati di Covid-19.
Funzione protettiva della vitamina D verso gli agenti infettivi
Sono molti gli studi, condotti a livello internazionale, sul ruolo immunomodulatore della vitamina D, che parrebbe svolgere una funzione protettiva verso agenti infettivi. Tuttavia, non vi sono attualmente molte informazioni su come la vitamina D possa influire sull’insorgenza ed il decorso della malattia nota come Covid-19. Molti lavori scientifici hanno associato l’ipovitaminosi D (cioè la carenza della vitamina stessa nel nostro organismo) a una maggiore esposizione alla malattia ed alle sue manifestazioni cliniche più aggressive. Poco era, invece, noto sugli effetti dell’assunzione di colecalciferolo (vitamina D nativa) in pazienti già affetti da Covid-19.
Il punto Anticorpi Coronavirus, primo studio al mondo sull'uomo. "Potenziale cura al Covid" - Anticorpi monoclonali, dalle Coop 1.5 milioni per la ricerca
"La terapia con colecalciferolo assunta prima del contagio può favorire un decorso meno critico"
Una recente ricerca francese aveva suggerito che la terapia con colecalciferolo, assunta nei mesi precedenti il contagio, potesse favorire un decorso meno critico in pazienti anziani fragili affetti da Covid-19. Lo studio Effectiveness of In-Hospital Cholecalciferol Use on Clinical Outcomes in Comorbid Covid-19 Patients: A Hypothesis-Generating Study è stato pubblicato in questi giorni nella prestigiosa rivista 'Nutrients' e mostra come la somministrazione di vitamina D in soggetti affetti da Covid-19 con comorbidità (cioè affetti da patologie pregeresse) abbia potenziali effetti positivi sul decorso della malattia.
La curiosità Trump, ecco la cura anti-Covid. Dieta leggera, antivirali e melatonina
Lo studio su 91 pazienti affetti da Covid
"La nostra è stata una ricerca retrospettiva condotta su 91 pazienti affetti da Covid-19, ospedalizzati durante la prima ondata pandemica nella area Area Covid-19 della Clinica Medica 3 dell’Azienda Ospedale-Università di Padova – ha spiegato il professor Sandro Giannini, del Dipartimento di Medicina dell’Università di Padova e primo firmatario dello studio -. I pazienti inclusi nella nostra indagine, di età media 74 anni, erano stati trattati con le associazioni terapeutiche allora adoperate in questo contesto e, in 36 soggetti su 91 (39.6%), con una dose elevata di vitamina D per 2 giorni consecutivi".
"I rimanenti 55 soggetti (60.4%) - continua il professor Giannini - non erano stati trattati con vitamina D. La scelta del medico di trattare i pazienti era stata essenzialmente basata su alcune caratteristiche cliniche e di laboratorio: avere bassi livelli nel sangue di vitamina D al momento del ricovero; essere fumatori attivi; dimostrare elevati livelli di D-Dimero ematico (indicatore di maggiore aggressività della malattia); presentare un grado rilevante di comorbidità". Lo studio aveva l’obiettivo di valutare se la proporzione di pazienti che andavano incontro al trasferimento in Unità di Terapia Intensiva e o al decesso potesse essere condizionata dall’assunzione di vitamina D. Durante un periodo di follow-up di 14 giorni circa, 27 (29.7%) pazienti venivano trasferiti in Terapia Intensiva e 22 (24.2%) andavano incontro al decesso. Nel complesso, 43 pazienti (47.3%) andavano incontro a 'decesso o trasferimento in Terapia intensiva.
Gli studi Covid e obesità: "Il rischio raddoppia, ecco perché"
"Maggiore è il numero delle patologie pregresse più evidente è il beneficio della vitamina D"
"L’analisi statistica rivelava che il 'peso' delle comorbidità (rappresentate dalla storia di malattie cardiovascolari, broncopneumopatia cronica ostruttiva, insufficienza renale cronica, malattia neoplastica non in remissione, diabete mellito, malattie ematologiche e malattie endocrine) modificava in modo ampiamente significativo l’effetto protettivo della vitamina D sull’obiettivo dello studio, in modo tale che maggiore era il numero delle comorbidità presenti, più evidente era il beneficio indotto dalla vitamina D.
"Rischio mortalità o trasferimento in terapia intensiva cala dell'80%"
"In particolare – conclude il professor Giannini -, nei soggetti che avevano assunto il colecalciferolo, il rischio di andare incontro a decesso o trasferimento in terapia intensiva era ridotto di circa l’80% rispetto ai soggetti che non l’avevano assunto. Il nostro lavoro dimostra, quindi, il potenziale effetto benefico della somministrazione della vitamina D in quei pazienti affetti da Covid-19 che, come molto spesso accade, presentano rilevanti comorbidità ed indica l’opportunità di condurre studi appropriati a conferma di questa ipotesi".
Trump, ecco la cura anti-Covid. Dieta leggera, antivirali e melatonina - Esteri - quotidiano.net
Trump, ecco la cura anti-Covid. Dieta leggera, antivirali e melatonina
Il medico della Casa Bianca, Sean P. Conley, ha spiegato che serve ad accorciare i giorni di ricovero che, al momento, dovrebbero essere cinque
Roma, 3 ottobre 2020 - Il Coronavirus ha colpito anche la Casa Bianca e il suo inquilino, Donald Trump, è risultato positivo con la moglie Melania. Ricoverato da ieri all'ospedale militare Walter Reed, nel Maryland, il presidente rassicura: "Mi sento come se potessi uscire di qui oggi". E i medici confermano il suo buono stato di salute: "Non ha bisogno dell'ossigeno".
Di che cosa è il merito? Un antivirale per intravena, il Remdesivir, il farmaco sperimentale Regn-Cov2 della Regeneron, dosi di zinco, vitamina D, famotidina per contrastare l'ipersecrezione acida dello stomaco, la melatonina per regolare il riposo e aspirine per prevenire problemi cardiaci. E' questa la terapia che Donald sta seguendo da ieri. Il medico della Casa Bianca, Sean P. Conley, ha spiegato che serve ad accorciare i giorni di ricovero che, al momento, dovrebbero essere cinque.
Quanto alla dieta, sarebbe molto leggera e diversa da quella che il presidente, in genere, osserva alla Casa Bianca: severamente vietati gli alimenti fritti e, al momento, anche le carni rosse. I medici hanno prescritto cibi sani e poveri di grassi, per non alimentare l'infezione
CAPITO? Dopo 80.000 e passa morti ci si accorge che le vitamine fanno bene?!? MA ANDATEVI A NASCONDERE voi e il santo Vaccino miracoloso!
Che poi non è nemmeno così facile averlo.
Biden si piglia pure i vaccini destinati a noi: ma Hey, c'é l'incoronazione da presidente, nessuno disturbi il manovratore.
Vaccino, Pfizer «dà a Biden le dosi riservate all'Ue». Bufera sul colosso Usa (ilmessaggero.it)
Sabato 16 Gennaio 2021 di Mauro Evangelisti
Il 14 gennaio il presidente eletto degli Stati Uniti, Joe Biden, annuncia un piano da 1.900 miliardi anti Covid che prevede di somministrare 100 milioni di dosi in 100 giorni. Il 15 gennaio Pfizer comunica alla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, che taglierà per quattro settimane le forniture di vaccini ai 27 Paesi della Ue, Italia compresa. Il sospetto che i due eventi siano collegati tra loro aleggia, anche perché lo stabilimento di Puurs (Belgio) della Pfizer, in cui dovrebbero essere in corso lavori di potenziamento della produzione che sono all’origine del rallentamento, non rifornisce solo i Paesi europei. Dopo la rivolta di molte Nazioni, a partire dall’Italia, ma anche della Scandinavia e dei Paesi Baltici, Pfizer si è affrettata a fare una mezza marcia indietro: «Il taglio delle consegne interesserà solo una settimana, poi recupereremo». «Ma di Pfizer non ci fidiamo più, fino a quando non vediamo le dosi non siamo tranquilli» dicono da alcune Regioni.
Vaccino, Balcani «dimenticati dall'Ue». Il presidente serbo: useremo quello cinese
Il ministro della Salute, Roberto Speranza, solitamente molto cauto, ieri ospite di Rete 4, si è sbilanciato: «Chiediamo a Pfizer di rispettare i patti, chiediamo serietà e rigore. Ci dicono che dalla prossima settimana si tornerà alla normalità ma siamo rigorosi e chiediamo che venga rispettato tutto nel dettaglio. C’è un altro problema serio: questa mattina alle 10, allo Spallanzani di Roma, sarà iniettata la seconda dose di Pfizer-BioNTech agli operatori della struttura che parteciparono al vaccine day del 27 dicembre. A causa degli impegni non rispettati dal gruppo americano-tedesco che ha tagliato del 29 per cento le forniture all’Italia, il sistema dei richiami, che devono avvenire dopo 3 settimane, rischia di andare in crisi. E sarebbe un guaio, soprattutto nelle Regioni dove non è stata tenuta la scorta del 30 per cento. C’è preoccupazione, ad esempio, per la Campania, che aveva annunciato di avere terminato le dosi. La struttura commissariale è in contatto con Pfizer per avere chiarimenti.
Vaccino, in Norvegia 23 morti tra persone anziane. Pfizer: «Dati non allarmanti»
C’è un’altra mossa della società che sta mettendo in difficoltà il piano vaccinale: il taglio delle consegne non è omogeneo, ma a totale discrezione di Pfizer che manda nei 298 centri vaccinali un numero di dosi imprevedibile. Così è molto complicato organizzarsi. Secondo una tabella elaborata dalla Regione Friuli-Venezia Giulia, vi sono territori che subiscono una riduzione molto alta: Sardegna (meno 50%), Emilia-Romagna (51), Veneto (53), Friuli-Venezia Giulia (54), Trentino-Alto Adige (58). Per altre il taglio è meno consistente, ma comunque significativo: Lazio e Lombardia (meno 25% per entrambe) e Campania (11) ad esempio. Altre stranamente non vengono interessate dalle riduzioni (Abruzzo, Basilicata, Marche, Molise, Umbria e Valle d’Aosta). Per Pfizer c’è un altro problema: in Norvegia le autorità sanitarie hanno rilevato che tra i vaccinati sono deceduti 23 tra persone molto anziane e fragili. «Reazioni comuni ai vaccini con mRna, come febbre e nausea, potrebbero aver contribuito ad un esito fatale».
Covid, variante Brasile, Italia blocca i voli. Speranza: «Dobbiamo studiarla», più aggressiva di quelle inglese e sudafricana
Pfizer ha definito «il numero degli incidenti finora non allarmante e in linea con le previsioni». Anche il presidente del Comitato scientifico sorveglianza di Aifa (l’agenzia del farmaco italiana), Vittorio Demicheli, rassicura: «Massima attenzione nel monitoraggio, ma al momento non esistono ragioni di allarme in Norvegia. E anche in Italia stiamo proteggendo i più fragili con il prodotto migliore che abbiamo, fra le molte decine di migliaia di vaccini già fatti nelle Rsa nulla di grave è ancora stato segnalato». In Italia siamo a 1.100.000 di persone vaccinate, ma con la frenata di Pfizer e la ridotta fornitura di Moderna, sarà difficile accelerare. Ema (agenzia europea per il farmaco) ha confermato che il responso sulla richiesta di autorizzazione per il vaccino di AstraZeneca è previsto attorno al 29 gennaio. Ci sono segnali importanti per Johnson&Johnson (vaccino monodose, l’Italia ha acquistato oltre 50 milioni di fiale): il verdetto di Ema potrebbe arrivare prima del previsto, anche a fine febbraio o a inizio marzo, ma molto dipende da quando la società farmaceutica presenterà la documentazione finale sulla sperimentazione.
Nel mentre, nel mondo, scene terrificanti.
L'altroieri il Sudafrica ha avuto oltre 800 morti in un giorno, mai visti prima così tanti cadere vittima del vairus in Africa: 839 morti in un giorno.
Del resto, in Nigeria ci sono stati 24 generali colpiti, e di loro uno è morto. Questo in un paese con un caso ogni circa 2.000 persone, e un morto ogni 160.000. Ora, o i generali in Nigeria sono tipo 200.000.000:2.000 = 100.000, oppure c'é qualcosa che non va nei conteggi.
E in Malawi, tempo addietro, addirittura due ministri morti in un giorno.
E in Amazzonia, purtroppo, stanno soffocando per mancanza d'ossigeno. Proprio a MANAUS, capitale dello stato più amazzonico del Brasile. Con grande rincrescimento del nazista Bolsonaro, immagino. Non era lui che parlava di influenzetta? Ma per gente come lui le bombole d'ossigeno non mancano mai, questo è sicuro.
Record di vittime in Regno Unito: oltre 1.600. Germania, verso lockdown prolungato al 14 febbraio. In Israele fino al 31 gennaio - Il Fatto Quotidiano
Resta da capire se le attuali restrizioni saranno rafforzate, come auspicato dalla Cancelliera. Sul tavolo il coprifuoco notturno, l'obbligo di indossare mascherine Ffp2 sui mezzi pubblici, la riduzione della capienza massima a un terzo sul trasporto pubblico e un aumento dello smartworking. Record di contagi in Israele. In Francia il ministro della Salute dichiara che il coprifuoco anticipato ha portato a un calo del 16% dei casi nelle aree dove è in vigore dal 2 gennaio. E gli Usa superano i 400mila morti
di F. Q. | 19 GENNAIO 2021Nuovo record assoluto di decessi in Gran Bretagna. L’ultimo bollettino sanitario del Regno parla di 1.610 morti per Covid nelle ultime 24 ore: un numero mai raggiunto dall’inizio della pandemia. Lo certificano i dati governativi diffusi oggi, che includono un recupero statistico di alcuni dati raccolti in ritardo nel weekend. I nuovi contagi giornalieri, influenzati dalla diffusione della nuova variante del virus, sono scesi invece a 33.355, contro i 37.535 di ieri.
Il governo centrale e i 16 Länder tedeschi hanno raggiunto un accordo per l’estensione del lockdown duro fino al 14 febbraio. Angela Merkel riesce quindi a ottenere il prolungamento delle restrizioni chiesto pubblicamente nelle scorse settimane, decisione auspicata anche dagli operatori sanitari, visto che alcuni ospedali sono ancora in difficoltà, con i reparti di terapia intensiva saturi in alcune zone del Paese. Non è ancora chiaro, in attesa di comunicazioni ufficiali da parte della Cancelliera, se alla serrata corrisponderanno anche ulteriori misure restrittive, come auspicato dalla leader tedesca in seguito al boom di decessi registrato nelle ultime settimane e con i contagi che rimangono su cifre preoccupanti, con lo spettro di una diffusione ancora più massiccia dovuta alle varianti inglese, sudafricana e brasiliana considerate più aggressive. In particolare, va capito se alla chiusura di ristoranti, attività non essenziali e scuole seguiranno anche il coprifuoco notturno, l’obbligo di indossare mascherine Ffp2 sui mezzi pubblici, provvedimento già adottato in Baviera e che sembra essere passato nel corso del vertice che si deve ancora concludere, la riduzione della capienza massima a un terzo sul trasporto pubblico e di un aumento dello smartworking.
Anche la Scozia ha deciso di optare per un lockdown fino a metà febbraio, con la maggior parte degli studenti che continuerà a fare lezione da casa con la didattica a distanza. Lo ha annunciato al Parlamento di Edimburgo la first minsiter scozzese Nicola Sturgeon, stando a quanto riferito dalla Bbc. Nel suo intervento ha esortato i cittadini alla “cautela”, malgrado il recente calo dei nuovi casi di Covid-19: “Dobbiamo vedere se questa tendenza prosegue per essere certi che questa fase della pandemia sia ora su una traiettoria discendente. E secondo dobbiamo essere realisti sul fatto che ogni miglioramento a cui stiamo assistendo dipende, in questa fase, dal fatto che restiamo a casa e riduciamo le nostre interazioni. Qualsiasi allentamento del lockdown potrebbe rapidamente invertire la situazione”, ha dichiarato. Sturgeon ha auspicato un graduale ritorno in classe a partire dalla seconda metà del mese prossimo.
Nonostante il terzo lockdown ancora in corso e la percentuale di persone vaccinate più alta al mondo, nelle ultime 24 ore Israele ha fatto registrare un nuovo record di contagi giornalieri, sfondando il tetto dei 10mila: per l’esattezza, sono 10.021 i nuovi positivi nel Paese a fronte di circa 100mila test, con un tasso di positività del 10,2%. Così il governo ha deciso all’unanimità di estendere l’attuale lockdown fino al 31 gennaio. È stato introdotto anche l’obbligo del tampone negativo entro le 72 ore precedenti per chi arriva in Israele.
In Francia, dove il 14 gennaio il governo ha imposto il coprifuoco anticipato alle 18 in tutto il Paese, sono 23.608 i nuovi casi di coronavirus e 373 i decessi avvenuti nell’ultima giornata. Secondo quanto riferito dal ministro della Salute, Olivier Véran, nei 15 dipartimenti in cui l’anticipo dalle 20 alle 18 è operativo già dal 2 gennaio il numero dei nuovi casi quotidiani è diminuito del 16%. Dato che fan ben sperare per un miglioramento a livello nazionale già dalle prossime settimane. “È stata una scelta difficile – ha aggiunto – ma necessaria poiché gli effetti tendono a farsi sentire”. Per il ministro, il calo “non farà arretrare l’epidemia in tempi brevi ma consentirà di stabilizzarla”. A livello nazionale, invece, ha ammesso Véran, bisogna aspettare ancora un po’ perché si manifesti l’effetto del coprifuoco, operativo da sabato sera. In ogni caso, “la circolazione del virus resta preoccupante”. E con 113 voti a favore e 43 contrari, l’Assemblea nazionale ha votato per l’estensione dello stato d’emergenza sanitaria fino al prossimo primo giugno. Il progetto di legge passa ora al Senato, che lo esaminerà a partire da mercoledì prossimo. La legge dovrebbe passare prima del 16 febbraio, data in cui scade l’attuale stato d’emergenza sanitaria.
Il governo, nonostante il rafforzamento delle restrizioni, ha comunque deciso “con orgoglio” di mantenere le scuole in presenza. Il ministro dell’Educazione, Jean-Michel Blanquer, ha detto che non c’è al momento “alcuna esplosione dei contagi” negli istituti e che sembra ci sia una stabilizzazione “su un plateau alto”: “Una trentina di scuole e un centinaio di classi”, ha detto a France Info, sono attualmente chiuse, e “questo numero rischia di aumentare un po’ nei prossimi giorni”, ma “non siamo in una situazione di esplosione dei contagi”. Secondo il ministro si osserva attualmente “la stessa curva” di contagio che c’era dopo le vacanze di Ognissanti ad inizio novembre. Al momento “non è in discussione una chiusura delle scuole. Certamente, io sono pragmatico, ma sarebbe l’ultima cosa da chiudere” nel caso di un aggravamento della situazione.
E anche il titolare della Salute francese invita la popolazione a non utilizzare mascherine artigianali: “Restano valide tutte le mascherine il cui potere filtrante è superiore al 90% – ha dichiarato – Al contrario, le mascherine artigianali fabbricate in casa con le migliori intenzioni del mondo, rispettando le norme Afnor, non offrono necessariamente tutte le garanzie necessarie”.
Pechino, preoccupata per il nuovo aumento di casi, ha deciso di estendere il periodo di osservazione sanitaria a 28 giorni per i viaggiatori in entrata dall’estero. Il nuovo modello comprende la quarantena medica centralizzata di 14 giorni, una settimana di isolamento domiciliare o quarantena centralizzata e un’altra settimana di monitoraggio sanitario. Le persone in arrivo attraverso altre città cinesi devono attendere 21 giorni prima di entrare nella capitale e dopo il loro ingresso è richiesto un monitoraggio sanitario di sette giorni. Per chi ha un periodo di ingresso inferiore a 21 giorni ma si trova già a Pechino, l’isolamento ‘7 + 7’ e il monitoraggio sanitario devono essere completati nella città, hanno detto le autorità locali. Durante i sette giorni di monitoraggio della salute, le persone possono seguire le loro normali routine evitando le riunioni.
Stati Uniti – Sono 137.885 i casi e 1.381 i decessi registrati nel Paese nelle ultime 24 ore, che portano il numero delle vittime totali da inizio pandemia a oltre 400mila. I numeri diffusi oggi mostrano un calo rispetto alle passate settimane e questo è bastato al presidente uscente, Donald Trump, per annunciare che dal 26 gennaio saranno revocate le restrizioni di viaggio dall’area Schengen, dalla Gran Bretagna, dalla Repubblica Irlandese e dal Brasile. Un provvedimento che dovrebbe partire una settimana dopo il giuramento della nuova amministrazione Biden che ha già escluso la possibilità di togliere le restrizioni esistenti. “Con il peggioramento della pandemia e l’emergere nel mondo di varianti più contagiose, questo non è il momento di revocare le restrizioni sui viaggi internazionali – ha spiegato la nuova portavoce Jen Psaky -. Su consiglio del nostro team medico, l’amministrazione non intende togliere queste restrizioni il 26 gennaio. Infatti intendiamo rafforzare le misure di salute pubblica sui viaggi internazionali per mitigare ulteriormente la diffusione del Covid 19″.
Cina – Il Paese combatte nuovi focolai di coronavirus nel gelido nord-est, dando il via a ulteriori blocchi e divieti di viaggio in vista delle vacanze del Capodanno lunare del mese prossimo. Il Paese ha segnalato altri 118 casi, di cui 43 nella provincia di Jilin. La provincia di Hebei, appena fuori Pechino, ha visto altri 35 casi, mentre quella di Heilongjiang, al confine con la Russia, ha segnalato 27 nuovi contagi. Pechino, dove alcune comunità residenziali e agglomerati periferici sono stati sottoposti a lockdown, ha segnalato solo un nuovo caso. La provincia settentrionale di Liaoning ha imposto quarantene e restrizioni di viaggio per impedire l’ulteriore diffusione del virus, come parte delle misure imposte in gran parte del Paese per prevenire nuovi focolai durante le vacanze del Capodanno lunare. Le autorità hanno invitato i cittadini a non viaggiare, ordinato la chiusura delle scuole con una settimana di anticipo e condotto test su vasta scala. La capitale della provincia dello Hebei, Shijiazhuang, ha inoltre costruito un complesso di unità abitative prefabbricate per consentire la quarantena di oltre 3mila persone mentre lotta per controllare un numero alto di infezioni.
Russia – La Russia ha registrato 21.734 casi di coronavirus nelle ultime 24 ore, il numero più basso dal 18 novembre.
Ma la coppa del peggior disastro purtroppo se l'aggiudica il Regno Unito:
Giornata nera nel Regno Unito: 1.820 vittime per il Covid, mai così numerose da inizio pandemia - Rai News
CORONAVIRUS Oltre 38mila contagiati in 24 ore Giornata nera nel Regno Unito: 1.820 vittime per il Covid, mai così numerose da inizio pandemia Il Paese è in lockdown dall'inizio di gennaio Tweet Covid nel Regno Unito. Johnson: "Lockdown necessario, ora sprint sui vaccini" Regno Unito chiude i corridoi di viaggio. Boris Johnson: "Troppi contagi", oltre 86mila decessi 20 gennaio 2021 È il giorno più nero nel Regno Unito dall'inizio della pandemia. Secondo i media locali, infatti, nelle ultime 24 ore sono morte 1.820 persone per complicanze legate al Covid, il dato più elevato mai registrato dall'inizio della pandemia e che supera il precedente record di ieri di 1.610 decessi. Il Paese è nel momento peggiore dell'emergenza sanitaria: i nuovi casi giornalieri sono oltre 38mila e ogni giorno sembra segnare un record tra numero di morti e numero di contagiati. Il Regno Unito è in lockdown totale dagli inizi di gennaio. Prosegue a ritmo elevato la campagna vaccinale: le persone che hanno ricevuto almeno una dose del vaccino sono 4.609.740, mentre 460.625 hanno ricevuto anche la seconda dose.
Ah, ma non ho detto il meglio:
Nel mentre, in Luogocomune.net si continua a DELIRARE, lasciamo perdere la Home, ma anche nella pagina di discussione sul numero dei morti.
20/01/2021 23:17 #42540Risposta da Tonki al topic COVID: Il numero dei morti
L'eccesso di morti, laddove c'é stato, non significa nulla. Inutile tirare fuori studi ( 200/300 che siano ) sul fatto che il covid come effetto collaterale provaca danni al cervello. E' ovvio che crea qualunque cosa, se arrivi ad essere intubato o in situazioni di quel genere. Se cercassero danni ai testicoli li troverebbero.
Il punto è che era potenzialmente una semplice influenza, ci sono il triplo di studi che dicono che la vitamina d e pochi accorgimenti l'avrebbero reso meno letale. Centianai di studi, centianaia su tante cose.
Non si è curato se non in stato avanzato, e tuttora in molte parti si va a tachipirina. Se ne è parlato a dismisura di come si è fatto di tutto per renderlo più letale. E ciò nonostante, in alcuni paesi non si sono avute le stragi italiane.
E dove non bastavano i morti causati, si sono aumentati i numeri mettendoci infartuati, gente con un piede nella fossa, e persino gente arrotata per strada.
Non è il covid mortale. E' stato reso ed reso tale. E' un raffreddore. E' niente per chi è sano infatti, neppure un raffreddore. IL vero complotto, è stato renderlo mortale per i vecchi. Unitariamente al gonfiaggio dei numeri per tutti gli altri.
EVIDENTEMENTE GLI ASINTOMATICI CON DANNI DA COVID AL CERVELLO SONO PIU' DI QUEL CHE SI PENSI (come ha detto un altro utente più assennato).